giovedì 1 ottobre 2020

All'incirca amore 3




Punti di vista

Il problema sono i film, meno i libri ma i libri anche. Il problema sono le signorine studentesse. Il problema sono i film nelle mani colle unghie pitturate delle signorine studentesse. Nel film c’è il professore di filosofia Abe, “dannato e un po’ blasé che seduce, quasi suo malgrado, la bella e giovane studentessa la quale, sebbene felicemente fidanzata, non resiste al suo fascino tenebroso e autodistruttivo”. Nel vero c’è il professore di filosofia Alfredo, non si sa quanto dannato e però alquanto blasé, che per una qual certa coerenza interna, e forse esterna, non vorrebbe sedurre nessuno, meno che mai la bella e giovane studentessa. La giovane studentessa ha però ahimè visto il film, pessimo film peraltro, e s’è ahimè convinta che lo stesso accadrà nel vero, bastando forse aiutare un pocolino le circostanze. Aiutare un pocolino le circostanze si traduce, nell’anima vegetativa e affettiva della giovane studentessa, nello scattare una foto al proprio deretano ricoperto di pizzo elastico nero a banda larga e inviarla al professore tenebroso e autodistruttivo. Ora lo spiazzo da tergo, pensa affettivamente e vegetativamente la signorina Federica.

Il problema sono i professori di filosofia tenebrosi e autodistruttivi. Apparentemente insensibili alla carne, essi menano un’esistenza mediamente infelice… La studentessa guarda il professore che fa lezione, nessun accenno alle terga trinate: ostinatamente rassegnato parla, tace, parla, cammina, non li guarda, segue un qualche suo pensiero di tenebra e autodistruzione. E però, pensa affettivamente la studentessa, però a saper andare oltre deve esserci un fondo di tenerezza, un grumo di dolcezza, un’incrostazione di gioia, come un riflesso verde di giaietto dietro la maschera maltrattata dal tempo, come una richiesta soffocata di aiuto oltre la scorza scorticata dal tormento… un premio per chi abbia la pazienza di sollevare ad uno ad uno tutti gli strati di piume tormentate ch’egli ha frapposto fra sé e il mondo vero… Sì, perché lei lo sente che c’è qualcosa lassotto, e anche se lo sente solo lei, anzi proprio perché lo sente solo lei, come la principessa sui venti materassi con venti piumini lo sentiva che c’era qualcosa lassotto… Sì, è insensibile alla carne perché sopra la carne c’è il tormento, pensa la principessa Federica.

Il problema sono gli studenti, Marta. Li guardo e vedo il nulla. Allora non li guardo. Ostinatamente rassegnato parlo, taccio, parlo, cammino, non li guardo. Non so cosa vedano loro—Vedono uno che reca seco un certo gravame—Ciò suscita in loro qualche pensiero, dici?—Nella tipa delle mutande di pizzo presumibilmente sì—Mi ha scritto di nuovo—Sei sicuro sia lei—Sicuro, dice ha bisogno di parlare. Dice: può ricevermi domani, oggi, adesso? Dice: so che oggi abbiamo lezione ma preferirei essere ricevuta in altra sede—La ricevi in altra sede?—In sede di ricevimento, pensavo, vediamo cosa vuole—Vuole che la arrovesci sulla scrivania, cosa vuole, e poi che la porti al Luna Park, giuochi al tirassegno e le vinci l’orsacchiotto grande. Poi girovagate fino a mattina collo zucchero filato e il fango nelle scarpe, parlando di filosofia—Le dirò che se gioca bene le sue carte può avere il mio corpo, ma non l’orsacchiotto grande—Diglielo sì però con quella tua faccia impassibile, come quando mi dici che sei contento.

Il problema è che non capisce. Gli ho mostrato il mio tormento, ma niente, preciso come quando gli ho mostrato le natiche. Niente. Gli ho chiesto di essere il mio Socrate, questa è una lingua che comprende, pensavo, invece niente. Gli ho detto: ho bisogno di qualcuno che mi faccia tirare fuori quello che ho dentro, che mi aiuti a pormi le domande giuste, anche se le risposte non le ho ancora. Gli ho detto: voglio il suo tempo, il suo tempo e la sua energia. Ma non capisce, adduce impegni, oneri didattici… Ma io non voglio il suo tempo alle quindici e trenta, gli ho detto, non voglio il suo tempo alle diciotto, mi va bene anche quello alle tre di notte. Mi va meglio quello alle tre di notte… Ma niente, non capisce niente, si arrocca sulla questione della didattica, dice che posso andare al ricevimento. Certo che posso venire al ricevimento, lo so che posso venire al ricevimento, sta scritto sulla sua porta. E che faremo le esercitazioni, dice che faremo le esercitazioni, in modo da affrontare le difficoltà, come se le difficoltà stessero negli esercizi, come se la poesia stesse nella metrica, nella rima, nelle figure retoriche… ma io voglio strappare le prefazioni, capitano Socrate, voglio mettere le rose negli esercizi… è urgente…

È urgente, professore, possiamo vederci domani?—Stamattina sono in seduta di laurea. Potrei dalle 14. Saluti—Non farò in tempo. Grazie lo stesso. Mi prenoto per la settimana prossima. O per domani, o per Pasqua. Scusi. A dopo.—Aveva un’urgenza particolare? Domani dalle 9.45 alle 10.30 sono nel mio ufficio. Ma consideri che a partire da aprile farete delle esercitazioni in modo da affrontare varie difficoltà. Saluti—Buongiorno. Mi sono svegliata adesso. È ancora in città?—Sì, ma parto alle 14.—Non farò in tempo, abito fuori. Allora buon viaggio, e mi faccia sapere quando torna e quando possiamo vederci.—Già mercoledì prossimo riprendiamo le lezioni. Può venire prima della lezione, alle 15.30, oppure la settimana dopo, mercoledì mattina. Saluti—Mercoledì alle 15.30 nel suo studio. Abbiamo poco tempo, non faccia ritardo.


Abbiamo poco tempo, non faccia ritardo… Il problema è che ha ventiquattr’anni, potrebbe essere mia figlia. Ma in effetti se ne avesse 42 potrebbe essere mia sorella. Quindi lascerei stare i rapporti familiari—Hai fatto ritardo?—No, ero lì alle tre e mezza; mi ha chiesto come passo le giornate—Cosa le hai risposto?—Che studio. E per il resto passo il tempo a difendermi dalle donne. No, questo non l’ho detto. Mi ha detto che le serve qualcuno da frequentare in maniera diversa dalle persone che frequenta da quando è nata—Che persone?—Non so, forse i Puffi. Non so. Che domande sono? Mi ha detto: professore, mi vuole aiutare?—Ma non ti chiama Socrate?—No stavolta no, parlava di un capitano, delle rose negli esercizi, di combattere per trovare la nostra voce, e poi voleva distruggere le prefazioni, comunque le ho detto che sì, la voglio aiutare, voglio aiutare chiunque, nei limiti del possibile, le ho detto…

5 commenti:

  1. Mi sembra un problema geometrico, triangolare: il sé, l'immagine di sé, l'altro.
    :-)

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  2. Non ho problemi con il sé e con l'altro. L'immagine di sé, però non mi torna. È un periodo che mi parlano tutti dell'immagine di me. Non tutti ma più di qualcuno. Mi domando che differenza ci sia tra sé e l'immagine di sé, se per immagine di sé intende quella che uno ha di sé stesso medesimo. Quei più di qualcuno sono più o meno gli stessi che quando affermo che ero felice, in una certa situazione ics che essi non approvano, e non comprendono, mi dicono che pensavo di essere felice, ma non lo ero. Questo mi ha sempre fatto molto ridere. Che differenza c'è tra essere felici e pensare di essere felici? C'è differenza, lo comprendo, tra essere un astronauta e pensare di essere un astronauta. Ma è diverso. Insomma boh.

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  3. Chiedo perdono per il commento troppo sintetico ed ermetico. Mi riferivo ai personaggi del racconto, ovviamente, mai mi sarei sognato di riferirmi a lei, di cui non conosco quasi nulla e anche se conoscessi qualcosa mi guarderei bene dal giudicare. Racconto magnifico, orsacchiotto geniale, protagonisti triangolari. Che poi esista una divaricazione tra il sé, l'immagine di sé, la narrazione di sé, e ciò che del sé viene percepito all'esterno, beh questo è probabile e in qualche misura auspicabile, visto che mi pare sia nella natura delle relazioni umane. Concordo invece sul fatto che essere felici e pensare di essere felici sono la stessa cosa, visto che senza il pensiero della propria condizione probabilmente non è possibile che esista una condizione.

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  4. No, sono io che chiedo perdono per il tono, che vedo ora poteva essere inteso come freddo o peggio risentito ("on ho problemi con il" stava per "non ho difficoltà a gestire l'opposizione"). Anche l'argomento della risposta a ben vedere è piuttosto fuori tema. È che non sono molto abituata a discutere di queste questioni con un interlocutore diverso da me stessa (non sono abituata e però sono felicissima di poterlo fare): ho letto il commento, ma del commento ho trattenuto massimamente l'opposizione sé / immagine di sé, dando oltretutto per scontato che l'immagine fosse quella che di sé si fa il soggetto, e mi sono venute in mente una serie di cose, che ho scritto. Più che altro come se le scrivessi tra me e me. Mi sono risposta da sola, insomma, però a questo punto devo una risposta a lei. E forse anche a me, perché non è che mi sia per niente chiaro quello che ho scritto. Il punto è che non mi è chiaro cosa intendere per sé. Nel senso che non vedendo io un qualcosa di oggettivo, o ben definito, da chiamare sé, a prescindere dall'immagine che ce ne facciamo, noi da un lato e quegli altri dall'altra, non vedevo un triangolo ma solo due punti di vista: quello del sé (e della sua immagine di sé, per me coincidenti) e quello dell'altro. Forse ho ancora complicato le cose... Però più o meno la vedo così. Più o meno. Forse…

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  5. Leggevo qualche giorno fa che il cervello umano pare sia costituito da alcuni miliardi di neuroni, ciascuno dei quali collegato all’altro da migliaia di sinapsi. Dunque il sé dovrebbe trovarsi lì dentro, in quel velocissimo flusso elettrico che prende le informazioni, le aggrega e le struttura in un discorso. Ma il sé è il flusso, le informazioni o il discorso? E chi aggrega le informazioni, secondo quale principio le aggrega? Dal punto di vista del calcolo combinatorio, di cui lei ha conoscenze senz’altro superiori alle mie, si aprono un sacco di ipotesi. Considerata anche la plasticità del meccanismo di neurotrasmissione. Ma ancora più complesso è pensare alla natura delle informazioni. Alcune rimangono in noi e ci costituiscono (tipo “Morte a credito” nel suo caso o “Viaggio al termine della note” nel mio), altre scivolano via senza lasciare traccia. Come se non ci fosse una volontà e dunque un’ontologia. Ecco, ho l’impressione che il sé sia un’aggregazione casuale di elementi, una battigia in cui tutto rimane in sospensione, un po’ acqua e un po’ sabbia.

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