lunedì 5 ottobre 2020

Daccapo



Sono tornata.
A scrivere qui, ma più in generale (finalmente) a scrivere.
Dopo quasi due anni posso affermare che sì, scappare ha funzionato, per quanto non sia stata una decisione facile (e anzi ringrazio qui mia mamma, e cioè la persona che di tale decisione – e dell'indecisione ed incertezza che essa reca seco, per me – ha più sofferto, ma anche la persona che in questo assurdo progetto più mi ha aiutata, e mi aiuta, e mi sta vicino nei momenti di sconforto (eh, ci sono anche quelli... sebbene rari...)).
Gli scritti che verranno sono dunque prima di tutto dedicati a lei. Poi a me, che ne avevo bisogno. Poi a chi capita su questo blog (chissà che qualcuno dei miei vecchi lettori abbia resistito, chissà...).
Dunque due parole sugli scritti.
Avevo quasi pensato di aprire un blog nuovo, per ricominciar davvero daccapo, ma poi sono troppo pigra, quindi ho deciso di restare qui, dove ho già le mie vecchie cose, e provare a riorganizzarle.
I Tarocchi Truccati sono rimasti lì dove erano, nell'ordine in cui li avevo inseriti negli anni scorsi: nel mentre il mio amico Stefano è andato avanti nell'illustrarli (anche se illustrare è veramente riduttivo: ha dipinto delle enormi tele, che prima o poi riusciremo a collocare da qualche parte... e poi troveremo anche un editore, per mettere il tutto su carta, più maneggevole delle tele...)
Poi sono tornati gli Incroci Obbligati, pubblicati nel 2016 da Castelvecchi ma ormai fuori catalogo (ne ho qualche copia, se qualcuno la vuole...).
E poi ho cominciato una nuova raccolta, che si intitolerà All'incirca amore. Tre dei racconti sono vecchi, o quasi vecchi, e li avevo già messi qui, sebbene dispersi in sezioni diverse. Uno però – Amiran del mare – è nuovo, ed è il motivo per cui, finalmente, sono tornata.


 

sabato 3 ottobre 2020

All'incirca amore 4



Amiran del Mare


Il principe Abchazi toccò il mappamondo,
fermando il dito sui monti di Georgia
Come un lùbrico verme la piccola luna
strisciava nelle pianure infinite,
come piccoli pesci le gelide stelle
guizzavano nell’acquario del cielo.
Con due zolfanelli il principe Abchazi
faceva luce a una terra lontana,
dal cui dorso scendevano guerrieri
con scudi variopinti. E pianse
[A.M.Ripellino]


Ci sono storie meravigliose che cominciano nello schifo.
    Mio padre se n’è andato senza lasciarmi nulla: in quella fine orrenda d’agosto ho aspettato per giorni una busta, un pacchetto, una scatola, con dentro una cosa qualsiasi, anche niente. E dopo passati troppi giorni l’ho aspettato per settimane, e dopo per mesi e dopo per anni, e ogni anno ancora quel giorno lo aspetto, anche se ho cambiato tre volte casa, e sto a cinquecentocinquantatre chilometri da dove me lo avrebbe mandato, ad un indirizzo inindovinabile. E infatti niente è arrivato mai. Ha lasciato sulla scrivania una lettera cumulativa, anzi due: x Mario c’era scritto sopra la busta numero uno, x figli sull’altra, stampatello, nemmeno i nomi. Dentro c’era una giustificazione quasi notarile, con postille esplicative a margine: forse nel lavoro mi sono sempre imposto di cercare le soluzioni + corrette per i clienti, con conseguenti costi molto alti e mai remunerativi. Mi sono ridotto a non arrivare alla fine del mese pur di pagare sempre tutti […] I miei figli – i miei figli alla terza persona, non voi figli, anche senza nomi, no: i miei figli, essi – capiranno come mi sono ridotto se ho deciso di dare loro questo dolore. Capiranno come mi sono ridotto… come mi sono ridotto… non puoi scrivere della tua morte così, nemmeno se sei il babbo, ché la compassione, quella che provi per te stesso e quella che chiedi agli altri di provare per te, in qualche forma, da qualche parte, viene fuori. Mi sono ridotto a...
      Mi sono ridotto a ricorrere ad un sito di incontri. Non mio padre, anche se forse avrei dovuto pensarci, e costringercelo, a posteriori. Non mio padre: io. Io che sempre ho tenuto in spregio i siti di incontri, che con fatica ne ho parlato, e con schifo, le poche volte che ne ho detto, e sempre ne ho riso, dei siti e di quei poveracci che ad essi son costretti a riccorrere – Sono costretto a fare un lavoro che non mi piace… la lettera del babbo cominciava così. Il sito di incontri è luogo di impostura; di impostura e di spreco umano, dissi una volta in non so più quale mortalmente noiosa occasione conviviale, riscuotendo anche un qual certo successo di pubblico, specie quando mi venne di definirli serbatoi: serbatoi di infinita tristezza, dissi, lo rammento. Io, insomma, un altrimenti rispettabilissimo professionista, e stimato, mi sono ridotto a ricorrere ad un sito d’incontri. 
   In realtà non è stato il me rispettabilissimo, e stimato, che ha infine compilato quel modulo, ma un me alquanto vergognevole, ed oltremodo goffo (una trovata di Michele, questa del sito di incontri): cosa devo scrivere qui? Età altezza peso – pare il mercato delle manze di Imst: razza bruna, occhi grigi, barba… Barba la metto o no? Ce l’hai, mettila. Ma è un attributo momentaneo, voglio dire potrei anche farmela domattina, gli occhi sono quelli e basta, l’altezza pure. Sì ma il peso no. Sì ma una variazione necessita di tempi più lunghi, poi barare sul peso pare brutto… Provo una tenerezza infinita per questo me che compila il modulo, per lui e per la sua ingombrante vergogna, per la sua goffaggine di piccola giraffa che deve capire a cosa servono le gambe, e come sia mai possibile gestirle – e poi perché sono così lunghe, perché così lunghe? – … quarantanove unoeottanta settantaseiemmezzo grigi barba sì brizzolata capelli anche e mi piace il cinema. Invio. 
    Mi fa tanta tenerezza, e insieme però lo invidio, perché con la sua vergogna e la sua goffaggine di giraffa sta in quel prima, il prima del dopo che è venuto, laddove io non sarò mai più. Vero che mentre era lì non sapeva, perché mentre accade il prima è neutro, e solo in quanto prima del dopo che segue sarà sublime, oppure tragico. Questo sarà sublime.

Viaggio da Imola a Genova. Viaggio per lavoro: sto andando a Genova per affari, non sto andando ad un appuntamento con uno sconosciuto appena trovato su di un sito di incontri. Io tengo in spregio i siti di incontri. Per metà del viaggio spiego, in silenzio (cumad), alla signora seduta di fianco che non è come sembra – come sembra? –, che non sto andando ad un appuntamento con un perfetto sconosciuto (non è vero, sai che ha la barba) incontrato al mercato delle manze. Ma lei non è una giraffa? No, sono un rispettabilissimo professionista, e stimato. Mi pareva una giraffa: forse è per via delle gambe. No, no, e poi non è come pensa: non sto andando all’appuntamento con quell’uomo del sito di incontri. Eppure ci avrei giurato. No, no, sto andando a Genova per lavoro. In effetti, a parte che sembra una giraffa lei è un bravo ragazzo, si vede, perché mai dovrebbe ridursi a ricorrere ad un sito di incontri? Infatti non lo farei mai. Vuole un wafer? 

Per l’altra metà del viaggio, ma non si tratta di metà consecutive, piuttosto alterne, cedo al piacere del pensiero di Fazil’. È lui che mi ha contattato, perciò non mi preoccupo del fatto che sia così più giovane. Saprà ben quel che fa, almeno uno dei due… Se solo riuscissi a zittire il senso di colpa… da sobrio potrei impegnare le mie forze residue in qualche esercizio di osservazione esterna: paesi a caso, nomi, nebbie, alberi, sterpaglie, la piattezza snervante della pianura, i campi, l’argilla, gl’incolti, gli stradelli di ghiaia e le peste delle ruotone dei trattori, i fichi sgonfi, i cachi arancioni, le stazioni arancioni, le stazioni rosa, le stazioni gialle, quelle ocra, la stazione di Voghera per esempio, che per anni ha significato, nella mia raccolta privata di simboli, il dolore e la disperazione disperata del distacco: lunedì mattina alle sette, treno per Trieste. Degli altri cambi, se poi c’erano, nulla rammento, perché avvenivano dopo: la tristezza delle sei meno un quarto, praticamente indistinguibile dal sonno, maturava fino alla disperazione addominale delle sette a Voghera, e poi piano piano si stemperava in una strana smania motoria e si appiattiva infine nella rassegnazione, verso Rovigo. In vista dell’Adriatico ero quasi felice.
    Come il dolore di Voghera, anche il senso di colpa, che poi in effetti già dapprincipio non era tutta colpa, piuttosto un misto tra colpa e ansia feroce, se ne va da sé: prima attutito, poi annientato dall’ansia, che ad Arquata Scrivia ha preso possesso di tutto il mio stomaco – l’ansia sta nello stomaco, il dolore cattivo nell’intestino – come da piccolo quando aspettavo la bimba delle calze gialle. Mancano 44 minuti. Non ho mai aspettato tanto la bimba, temo di non possedere gli strumenti per affrontare questa situazione. Poi quando aspettavo la bimba delle calze gialle aspettavo lei e basta: impensabile una sua sostituzione, e rimuoverla dal mio orizzonte è stato un lavoro di anni, di pazienza e di costanza. E di molto dolore. Ora c’è Fazil’ e però ci sono tutti gli altri. Quelli che sono, quelli che sono stati e non sono più, e quelli che saranno e non sono ancora.
    Fino a che sono rimasto sul treno era Fazil’, e basta, in forma di meraviglioso costrutto mentale, ma appena messo piede sul predellino, lasciata scendere e passar oltre l’interlocutrice immaginaria, che non abbia ad accorgersi della menzogna, per un lunghissimo minuto è stato, in forma di corpo materiato, tutti gli uomini che mi venivano incontro. Ora da qui, nel dopo, il solo pensiero di poterlo confondere con un umano qualsiasi è inaudito: Fazil’ era solo lui, anche da sul predellino, anche da lontano, lui e quel suo piccolo punto di luce all’orecchio, che dentro ci stava intrappolata tutta la dolcezza del mondo... Ma quell’altro aveva una valigia malva: forse la valigia era di sua moglie, una signora tarchiata, momentaneamente accidentalmente fuori scena, che lo tormenta e che lui detesta. O forse la ama, perché ora lo tormenta ma alle medie gli copiava sul diario i versi di Neruda: qui, la regione del mio cuore, colma di gelido pianto... e una volta lo ha baciato in bagno. Ma non sulla guancia, sulla bocca. Ma forse invece era sua, e allora lui è uno che non si perita a viaggiare colla valigia malva, e allora lo amo. E quello coll’ombrello, che era una domenica di ottobre di sole, e lui con l’ombrello. E quello con gli occhiali verdi. E quello lì che non ha niente di notevole, nemmeno i bottoni di cuoio (una volta mi diede appuntamento un tizio a Termini, uno che non conoscevo, per lavoro: mi disse mi riconosce perché ho i bottoni di cuoio).
 Feci anche in tempo ad ordinarli in una sorta di graduatoria: primo quello degli occhiali, che ancora ricordo come camminava, come un faraone bambino, secco, gentile, fragile, poi il Kien con la valigia violetta, poi quello coll’ombrello, poi quello senza i bottoni di cuoio… poi… poi però l’ho visto, l’ho visto e insieme ho saputo che era lui, lui e la sua dolcezza incastrata nell’orecchio, e lì è finita la parte della possibilità: da lì in poi è stata la certezza, che è meravigliosa, ma è tutta lì. Perché non l’ho fatto? – sto spesso a tormentarmi con questo pensiero di rimprovero – Perché quel giorno, su quel treno lento, non mi sono concentrato su un qualcosa, un qualcosa qualsiasi, un paese a caso, una fabbrica padana, un olmo, un frassino, una stazione, un tram… così da estrarlo dal fondo, schedarlo, far confluire in esso tutta la potenzialità del bello che stava per venire? Ora potrei pensarci, a quel paese a caso, e sentire nello stomaco il peso, uguale preciso ad allora, dell’attesa bellissima. Come quando penso alla canzoncina del negro sulla piroga, o alle navi di plastica nella piscina gonfiabile, o alla palletta a spicchi. Anche se quelle sono sensazioni di angoscia, e non preludevano a nulla, o perlomeno a nulla che valesse la pena di essere ricordato da me ora. Così, mentre l’angoscia, quella la posso ricostruire quando voglio, e talvolta lo faccio, anche solo per accertarmi che la possibilità ancora sussista, l’ansia bellissima è finita. L’unica cosa che rammento del viaggio è la stazione di Voghera, che però è già impegnata col dolore dei treni passati, inaccessibile a nuovi significati. Così ho perso la sensazione dell’attesa di Fazil’.

La sensazione dell’attesa di Michele, quella non ce l’ho mai avuta. Non lo aspettavo, è arrivato e basta, come depositato sul mio cammino da una sorte buona. Non depositato, anzi, precipitato piuttosto. Michele è un angelo appena precipitato dal cielo. Ma non uno che precipita una volta, la prima volta in quel bar di quasi centro, e poi basta. No lui tutte le volte è appena precipitato, lievemente stordito, con gli occhi spaesati e dolci, e sofferenti.
    Grazia e spirito devastante, questo è Michele. Quando è la grazia a governare, a volte anzi penso se fosse sempre la grazia, allora il suo mondo è come una di quelle palle a spicchi, o una enorme biglia di vetro, con dentro le girandole colorate, ed è bellissimo, lui è bellissimo, e io ho libero accesso a tutta la bellezza del suo mondo, ed è tutto così facile… Ma è lo spirito devastante che comanda, quasi che si limitasse a farsi da parte, quelle volte che vince la grazia, e con indifferenza ci lasciasse giocare, ma poi si stufasse, come Athaualpa, o qualche altro dio: un dio che non ama i suoi angeli. E fora la palla a spicchi e con due dita schiaccia la biglia con le girandole... Forse è invidia. Io dico che è invidia perché Michele è bellissimo. E così lo spirito vince sempre.
    Si fa del male, ti fai del male, e lui questo lo sa, lo sai, lo so sì, ma non voglio uscire. Nemmeno stasera, vero? E nemmeno domani, lo so. Però continuo a domandargli. C’è stato un tempo, un tempo di grazia, in cui ci vedevamo, ed era meraviglioso. Ero felice. Ma anche lui; ho foto di quei giorni: Michele l’angelo, il bellissimo frate barbuto, il francescano laico, e lui rideva. Gli ho fatto milioni di foto, e nelle foto è felice. Nelle foto lo amo, si vede bene, e lui è felice. È felice anche perché lo amo, non può essere altrimenti. Si vede. Ora però non vale più: Athaualpa ha mandato le tentazioni, e s’è ripreso Michele; al primo tentativo: poca fatica, nessuno stratagemma. Tanto Michele non ha armi: nessuna dea si è congiunta ad un mortale per generarlo, nessuna maga fattucchiera gli ha cucito monetine nell’orlo della maglietta. Pensa che bello, gli dice Athaualpa, una casa coi gatti; un uomo con cui scegliere i mobili, uno che quando rientri stanco ti fa le coccole; e la spesa insieme; e le valigie, uguali grandi, piene di cose inutili per andare in vacanza. Alla voce valigie aveva già vinto. 

Con Fazil’ non so se avrebbe funzionato. Fazil’ anche non è prole di dea, ma qualcuno gli ha cucito un amuleto, nell’orlo dell’orecchio destro. A dire il vero non so cosa faccia a lui, l’amuleto, se lo protegga dalla banalità del mondo, ma so bene cosa fa a me, e se rivado indietro a quel mattino, dopo il viaggio, dopo l’ansia, dopo il catalogo degli uomini, cronologicamente dopo tutto, ma logicamente prima, come una sorta di assioma da cui tutto segue, anche ciò che precede, all’inizio di tutto c’è l’incanto di quel sassolino all’orecchio. Un piccolo punto di luce, che era come una di quelle pietre da darsi in pegno: una concrezione, un calcolo, il logos… se lo decifro correttamente, posso attingere a tutta la dolcezza del mondo, come quei passaggi dietro le librerie finte, che ti mettono in comunicazione con una base dei servizi segreti, o con il paese degli gnomi. Dice che è per via del fabbro che lo ha forgiato: non un orefice, su questo punto diventa quasi cattivo, un fabbro. E mi spiega che in Abchazia il fabbro contava più del sacerdote: gli Abchazi, dice Fazil’, a differenza dei Georgiani, non hanno mai avuto una classe sacerdotale. La funzione del sacerdote era esercitata dall'anziano, o in alternativa dal fabbro. E come il fabbro era tenuto in gran conto, così il pescatore era disprezzato, giovane od anziano. Mio padre era pescatore.
  Ora - Fazil’ prende a raccontare, non per mia richiesta e senza apparente motivo – non pesca quasi più. Non gioca più a carte, non va al mercato la domenica, non tratta sul prezzo del pane, mangia quando se ne ricorda, dorme quando il sonno lo sorprende, dove il sonno lo sorprende. Sta. Forse sogna. Vive in un mondo di sua propria costruzione, geograficamente collocato nei suoi immediati dintorni, ma che egli estende, in certi giorni di inusuale lungimiranza, fino ai monti della Georgia. Nel mondo reale è profondamente infelice. Nel suo mondo immaginario, in cui non piove mai e gli astri segnano tempi che valgono solo per lui e per pochi altri suoi amici, come il cane alato dalle orecchie d’oro e gli occhi di luna, anche. E allora la sera beve, fino a sfinirsi. Però ha conosciuto il principe di Oldenburg, o almeno così mi raccontava, anche se le date non tornano. E nemmeno i dati banalmente anagrafici: Aleksandr Petroviç o Peter Aleksandroviç? Padre o figlio? Non ha mai risposto. A parte che il padre è morto nel ’32 e suo figlio ancor prima, nel ’24, senza eredi. Credo abbia letto tutto in un libro. Diceva che era stato un suo amico a riportare al principe il cigno nero, ma ogni tanto il cigno diventava un pellicano, rosa per giunta. Il pellicano o il cigno, papà? da piccolo ero curioso, volevo sapere tutto del parco delle piantagioni, delle terme e della mensa per gli operai, ma soprattutto della stanza delle meraviglie, con il mappamondo celeste con scritti tutti i nomi delle stelle: Skat Caph Matar Deneb... e l’enorme sella dell’amazzone sconosciuta e il bufalo selvatico. La storia del bufalo selvatico, che poi si scoprì esser un bufalo domestico inselvatichitosi sulle montagne, era la mia preferita, ogni volta era diversa… Tu sei un principe, gli dico. Ride. Un principe però non come quel piagnone del piccolo principe, no: un principe architetto, che costruisce la meraviglia in un mondo di spietatezza. E allora lui continua, e io penso che voglio stare per sempre qui, in questa città vecchia di ardesia, in questa stanza colle persiane verdi, ad ascoltarlo parlare di suo padre, dei fabbri, dei pescatori e dei principi Russi. Non so cosa ci sia di reale nell’Abchazia di Fazil’. Quell’uomo davanti al mare, Amiran… e però la prima volta lo aveva chiamato Amzan: come il dio della luna, aveva detto, perché la luna in Abchazia è maschio. Ho cercato Amzan, non sta nei cataloghi degli dei, nemmeno in quelli dei semidei o degli eroi guerrieri. C’è Amiran, anzi Abrskil o Abrysk’yl, ma non è il dio della luna. E la luna è femmina, uguale come in italiano.
    Mia madre mi cantava sempre una canzone, prima di dormire, gli dico. Parlava di una terra lontana, e di un negro su una piroga, che usciva a pigliar pesci, o almeno questo lo immagino io, il testo non lo dice, e pregava la luna. Era tristissima. Fazil’ mi abbraccia (mi spendo questa storia della piroga quando voglio essere abbracciato ma non oso chiederlo. Poi ci penso, pare brutto architettare tutto ciò, ma funziona. A volte mi spendo la storia del babbo, ma quella solo nelle occasioni estreme). In questi momenti, dopo l’amore, dopo il sonno e dopo i racconti che vengono dopo il sonno, in questi momenti c’è la tenerezza di Fazil’ e basta.

Però poi ci sono momenti, quasi tutti i momenti tranne quei pochi, in cui la tenerezza di Fazil’ non ha senso senza la grazia di Michele. E la grazia di Michele non sarebbe pensabile senza la leggerezza di Ferran, che abbisogna d’altro canto delle menzogne di Samuele. All’inizio mi straziava, questa cosa di dover contestualizzare un amore in un paesaggio di altri amori, poi mi ci sono abituato.

La signora del treno mi guarda strano. È un’altra signora, su un altro treno: sempre il regionale 2882 Ravenna-Genova Brignole, che parte da Imola alle sei meno cinque, ma di un altro giorno. Questa signora legge la rivista di bordo, dalla grafica elegante, fresca e dinamica. Vedo, signora, che lei fa parte di quel lettorato attivo, coinvolto e consapevole con posizionamento sociale sopra la media, che fa shopping come scelta non solo di gratificazione, ma come identikit sensoriale ed emozionale. E vede bene, giovanotto, certo che cosa ci faccia questa rivista così fresca e dinamica sul regionale 2882 Ravenna-Genova Brignole, rovente e quasi statico, lo sa Gesù. La ha recata seco lei? No, signora, era già lì quando mi sono seduto a Imola alle sei meno cinque. Certo lei deve volere un gran bene a quel suo Fazil’ per alzarsi prima dell’alba e imporsi quattro ore di locomozione quasi statica. Stavo proprio considerando che prima che il paesaggio al finestrino cambi, uno fa in tempo a impararlo a memoria: alberi, sterpaglie, la piattezza snervante della pianura, i campi, l’argilla, gl’incolti, gli stradelli di ghiaia e le peste delle ruotone dei trattori, i fichi sgonfi, i cachi arancioni, le stazioni arancioni, le stazioni rosa, le stazioni gialle, quelle ocra, la stazione di Voghera per esempio… Ma Ferran lo ho pagato. La signora non si scompone. Legge con grande attenzione la rivista fresca e dinamica; sempre la stessa pagina, quella con la flotta dei treni: velocità massima, velocità di crociera, lunghezza, peso, ubicazione della carrozza ristorante… Chissà perché non li chiamano più vagoni. Ferran lo ho pagato. Questo lo ha già detto. Questo la prima volta. E anche la seconda e la terza e la quarta. E poi? Poi mi ha chiesto di non farlo più. Allora lei gli piaceva. Gli piacevo, sì, ne sono certo. Ne ero certo, ora non mi sono rimaste molte certezze… Ma la signora è di nuovo alle prese con gli schemi dei convogli. Un po’ come con Ami. Mentre mi faceva ballare quella volta lungo la Senna, era sera, pioveva e lui in una mano aveva l’ombrello, ma lo ha posato quasi subito, con l’altra mi teneva e cantava un tango. Non sapeva le parole e cantava cose a caso, in italiano, e poi mi ha preso e mi ha fatto ballare, sempre con l’ombrello in mano, che ha posato quasi subito, sempre cantando quel tango improbabile e triste. Ballava male, devo ammettere, ma da lontano non si capiva: dal bateau-mouche che passava si vedevano solo due sotto la pioggia che ballavano il tango lungo la Senna, e infatti ci guardavano tutti. Non so se ci guardavano perché eravamo due uomini, o perché il tango lo cantava lui, ma non sapeva le parole, e lo cantava in italiano, o perché pioveva forte, o perché eravamo felici. Quella notte era felice anche lui. O forse solo fingeva bene… Ma con Ferran? Con Ferran era perfetto, finché l’ho pagato. La signora però è scesa, ha dimenticato la rivista e una scatola di zolfanelli.

Sono indispettito con Ferran, è troppo metafisico. L’altro giorno gli scrivo per comunicargli che il padrone di casa, che significa di casa sua, dice – lo dice a me, perché è mio amico: gliela ho trovata io, la casa, al Ferran – che ci sono problemi con una porzione dell’impianto elettrico, ma li risolverà quanto prima, nel mentre non usare la piastra ad induzione – tanto non ci abita ancora, perché mai dovrebbe usare la piastra? – Il frigorifero, invece, quello ora è a posto. E anche l’acquario. Tempo di arrivare in fondo alle tre righe e mi risponde. Poi gli mando una lezione su Miguel De Unamuno; specifico che non deve ascoltare la lezione se non gli va: mi basta un suo parere sull’autore. E non mi risponde. È terribile. Forse gli metto troppa pressione. Però gli ho solo chiesto cosa pensa di un autore spagnolo. Però non gli scriverò più. Mi costa (meno che non scrivere a Michele, ma mi costa) ma non gli voglio scrivere più. Mai più. Scrivo a Marta. Marta dice che non è metafisico ma proprio per nulla. Dice che se scrive a Federico per problemi di carburatori, lui le risponde subito, ed è contento, mentre se gli scrive che è triste (non lo fa più, infatti) si infastidisce. Sono uomini pratici, dice, e infondo ci piacciono per questo. Forse il punto potrebbe essere che lui, il Ferran, non intende una domanda su Unamuno una cosa urgente, dice Marta: una domanda su un frigorifero, o su un carburatore, viene colta come una richiesta di aiuto – da quale parte provenga, ha poca importanza –, una su Unamuno no. Lui non pensa che tu abbia bisogno di sapere cosa lui pensa di Unamuno; con il che non sto dicendo che tu non abbia bisogno di sapere cosa lui pensa di Unamuno, e pure molto più di quanto hai bisogno di sapere come pulire il carburatore. Marta è saggia. Cioè no, non è saggia, ma le voglio bene perché mi somiglia. E quindi indovina la risposta giusta, quasi sempre. A volte però no. In più ha questo fondo di platonismo spicciolo, irrisolto e irritante – irritante per lei stessa medesima – che si estrinseca in categorie ideali dure come il macigno, a volergliele demolire: l’uomo colla pancia, l’uomo giovane… Forse lui, il Ferran, non lo amo veramente. E poi non è pratico, è metafisico. Forse lo toglierò dal mio catalogo degli amori. O forse ce lo lascio, ma solo per spirito di completezza.
    Ce lo lasci, fa colore: quegli altri sono belli ma troppo poco credibili: poca materia, di quella che si tocca: un groviglio di puro spirito. Ma non era scesa? Ma infatti io sono un’altra signora. Comunque troppo spirito. Quel Michele, per esempio… Sì, Michele lo amo più di tutti ma senza volerci andare a letto. Mai mai mai? Senza volerci più andare a letto, mi correggo. Abbiamo scopato una volta, ma poi non so... penso di non piacergli abbastanza: a lui piacciono gli uomini massicci. Vedo che lei pure, giovanotto, usa le categorie macigno della sua amica Marta: gli uomini massicci, gli uomini pelosi… Le usa quando le fa comodo, perché ’sta storia di Michele-ma-senza-sesso non ci sta, nel mondo degli uomini di ossa e polpe. Se sta da qualche parte, se proprio deve farla stare da qualche parte, intendo, oltre che nella sua testa, allora sta lassù, assieme all’idea del bello, del giusto, del tondo. Cioè non sta, direbbe alla sua amica. Già. Ma anche io sessualmente non sono attratto. Ahahahahahaha. La signora ha chiuso la rivista e ride forte. Sono l’unico a prendere sul serio questa affermazione.

Però in effetti Michele era bellissimo quel giorno. Camminavamo sul lago gelato, lui aveva perso le ali: Tassiarca! Arcangelo Michele, archistratega! Le ali… hai perduto le ali. Ride. Guarda dentro l’obiettivo e ride. Poi fa le facce. Bilancia, spada, drago… Ma quello del drago non era san Giorgio? Anche, ma lui non era un angelo, tantomeno un arcangelo. Io non sono un arcangelo, sono un rospo. Un rospo alato ma senza ali, vedi? Salto. Si accovaccia e salta. Anche in Abchazia c’è un Michele, non so se arcangelo, specializzato nello sterminare i demoni. Mentre i draghi vanno nella prateria e cantano a squarciagola. C’è anche un Giorgio, peraltro, santo e odiatore di donne. E i rospi? I rospi non so. L’ho rivisto qualche giorno fa. È ingrassato. Sta giocando alla famigliola felice: la relazione solida, da vivere quotidianamente dice lui, che significa quotidianamente disprezzare qualcuno, ma un qualcuno che è sempre lo stesso: quello dei mobili, della spesa, delle valigie grandi… Il problema è che ha in testa l’idea di relazione, che significa l’universale relazione, la forma pura, e che come ogni forma pura se ne fotte delle sue manifestazioni particolari, le quali possono anche essere un fatto di mero disprezzo, financo disgusto, senza che ciò nulla tolga alla sacralità della relazione in sé. Come i preti che si inculano i bimbi del catechismo. E poi usa relazione, mentre io preferisco rapporto, gli dico, e lui mi fa notare che è strano, detto da me: il rapporto è tra due oggetti, diciamo soggetti, la relazione è tra enne oggetti, con enne imprecisato. Sì ma io non ho una relazione con enne soggetti, ho enne rapporti, ciascuno con un soggetto, è diverso. Tu invece pretendi di ridurli a uno, e per di più ti scegli un uno insignificante, che non puoi che disprezzare. Ma questo non ho il coraggio di dirglielo. Sì, so che invece lei lo direbbe, signora. La signora glielo direbbe, com’è vero iddio, perché le donne non resistono. Hanno tempi ridicoli di contenimento del commento, quand’anche non richiesto, forse soprattutto non richiesto. Anche le donne di ciò consapevoli, che sono le più infelici, perché si sforzano ma si sforzano invano. E lo sanno, e ciò nonostante ci provano. E immancabilmente cedono; in guizzi di raro giudizio guadagnano forse frazioni di ora, tempi quasi da maschi, ma passa. Deve essere frustrante, essere una donna. Non dico una donna come la signora che guarda i convogli, che è verosimilmente agita dall’ormone, come tutte le femmine, ma di ciò non si avvede. Dico la donna che avverte di essere posseduta, e cerca di opporsi, e pur consapevolmente opponendosi, sempre e comunque perde. E alla fine parla. E mentre parla vorrebbe star tacendo, ma sta già parlando.

Mi ha scritto Ferran, verrà. Sono impaziente. Sono un cretino. Non sei un cretino, dice la Marta: sii impaziente, è bello. Forse è una di quelle volte che ha ragione: cederò all’impazienza; del resto so bene come si fa, e mi vien facile, dopo che ho atteso con impazienza decine di uomini: sto, non oppongo resistenza, come il gatto, piatto, le orecchie basse; la assorbo, come un telo di spugna nella melma; la metabolizzo, come il verme delle navi gigante; mi ci crogiolo, come un ippopotamo. 
    Come quella volta di Walter: quella fu la madre di tutte le attese, l’impresa dell’impazienza, che se ne dovessi fare un riassunto ci sarebbe un sole, tipo quello dei tarocchi, e caldo, e un’ombra a strisce, e pennarelli. Walter lo incontrai in vacanza, mentre stavo al campo estivo della parrocchia, in una baita ai margini di un paesino minuscolo presso dorsi di monti a punta, pietraie e mughi. Lui non c’entrava, era lì con i suoi, e una sera scappammo nel bosco, era prima di cena, era luglio, ci sedemmo su di un sasso e parlammo per ore. O forse fu solo qualche decina di minuti. Poi forse ci baciammo, ma non ricordo nemmeno se ciò accadde davvero o se solo avrebbe dovuto accadere; di fatto lui partiva il giorno successivo, e in pegno del suo amore mi lasciò una collana di cuoio. E mi promise una telefonata, che fu fissata per il dieci di agosto, di pomeriggio.
    Agosto in città è orribile, specie il pomeriggio: fa caldo, tanto che si ponevano teli di spugna umidi contro le tapparelle, incastrati in alto, e l’evaporazione essendo endotermica un minimo dava sollievo, o almeno dava l’impressione di darne. L’attesa si colloca così in una penombra a strisce, umida e rovente; comincia verso l’una e trenta, ora in cui convengo con me stesso di collocare l’inizio del pomeriggio e si protrae sino alle quattro e mezza, ora in cui Walter telefona davvero.
    Non ricordo cosa ci dicemmo, e della telefonata rammento solo me che giocherello con un’abat-jour; dell’attesa della telefonata, di contro, ricordo tutto: per buona parte del tempo ho disegnato, anzi ho miniato un capolettera W, filigranato rifesso zoomorfo, ma più il tempo passava, più spesso pigliavo forma di quello che girella per la casa, come fingendo di non stare andando ad uno dei telefoni, ma ci andavo, e alzavo il ricevitore per essere certo che funzionasse, e che la linea fosse libera, il che era. Anche sono stato al bagno varie volte, ché l’ansia mi fa l’effetto delle arachidi brustolite del Gadda, e anche sono stato fermo, ma fermo fermo, che significa che ho azzerato tutti i movimenti su cui abbiamo il controllo, anche quelli minimi, anche se a tutt’oggi mi sfugge il senso, così come lo scopo, di quell’esercizio di statica. Comunque Walter telefonò. Mi mandò anche una cartolina da Viserba, luogo a me sconosciuto ai tempi, e forse anche ci scambiammo qualche lettera, anzi sicuramente lo facemmo, ma del contenuto non serbo alcuna memoria, e nemmeno del tono. Erano lettere d’amore? Non credo, anzi tenderei ad escluderlo. E cos’erano allora? Non ne ho la più pallida idea. Lettere. E in ogni caso durarono poco: eravamo molto giovani, avevamo daffare...
    Però poi l’ho rivisto una volta, quasi dieci anni dopo: aveva conservato il mio numero ed era, non ricordo per quale motivo, per qualche giorno in caserma ad Imola. Mi chiamò e dopo qualche convenevole spiccio mi chiese se fossi impegnato. Risposi stupidamente, o forse solo ingenuamente, che a parte studiare per non ricordo quale esame, per il resto ero libero. Capii però che intendeva altro, e purtroppo all’epoca lo ero, ero impegnato, ed ero strettamente monogamo: un amore per volta, anzi sperabilmente uno per sempre, e per di più che fosse femmina, perché già che faccio le cose per bene, le faccio per bene fino in fondo.
    E invece Ferran non è venuto. Ha accampato una delle sue solite storie: il padre malato. Ma tuo padre non era morto già l’altra volta che non eri potuto venire? Uh! Ho detto padre? Intendevo dire fratello. Checché ne dica la signora, stavolta lo cancello dalla lista. Tanto ce lo rimetti la prossima volta che ti scrive: due righe secche, pura circostanza, educazione, tatto: come stai? E tu rispondi i tuoi canonici ventisei capoversi cesellati sullo stato del tuo animo: in sé stesso (che poi significa in relazione al mondo, come gli spieghi nel dettaglio nelle prime sette righe) e in relazione al suo messaggio, che è proprio semmai la parte da evitare. È per non essere avaro: lui non era avaro, all’inizio... ti ho detto della prima volta? Lo avevo già pagato, e accompagnato alla porta: lì è stato lui che ci ha ripensato. Sì ma dopo? Le volte dopo? Le relazioni umane sono soggette alle leggi dell’evoluzione, tanto quanto gli ippopotami; e chiamali rapporti se vuoi, non cambia nulla, cioè cambia tutto allo stesso modo, uguale preciso. Ma tu sei un negazionista, un creazionista sentimentale.
    Non c’è sentimento nel mio rapporto con Ferran. Sesso ed erudizione, quando è disposto all’erudizione. E quando è disposto al sesso. Che significa quasi mai, ora, ma prima era diverso: mi leggeva San Juan de la Cruz. E poi pretendeva sempre di passare il suo compleanno con me, ed era bello... certo si fosse ricordato una volta del mio... E poi ti ho detto della prima volta? Ma Marta non sta più ascoltando, sta disegnando degli ippopotami di spugna, con le orecchie basse. 

Io so tutti i compleanni. Ieri era quello di Fazil’. A volte immagino che per il suo compleanno Amiran lo chiami: lo fa da una cabina telefonica vicino al porto, mentre piove e i fanali dondolano. È un uomo distinto, con un impermeabile chiaro e da lontano sembra Bogart, solo più alto. Forse ho visto troppi film. Il fatto è che quando mi avvicino e guardo meglio, l’uomo al telefono è mio padre, e l’impermeabile è tutto bagnato, e anche i pantaloni di velluto a coste sono bagnati fin quasi al ginocchio: piove, papà, perché continui a stare in quella cabina sfondata, perché telefoni? 
    Penso spesso ai nostri padri: il mio era un uomo distinto, sobrio, infelice, con tante penne a china e un impermeabile chiaro, come Bogart, e non beveva, non fumava più, e alla fine si è ammazzato. Suo padre è un pazzo, inconcludente, inconsistente, infelice, con la tuta di acrilico e anelli di latta, e fuma, e beve fino a sfinirsi, ma alla fine si siede sul molo, con i piedi nel Mar Nero (calzati, tanto è ubriaco), e non si ammazzerà. Continuerà ad essere infelice, ma non si ammazzerà, penso. Finché avrà la forza di ubriacarsi e trascinarsi fino al molo (camminando, strisciando: rotolando, non ha importanza), e spenzolare le sue lunghe gambe di abchazo nel Mar Nero, penso, Amiran non si ammazzerà.
    Non so se Fazil’ sia di ciò consapevole. Non so se, consapevole, sia di ciò felice. Di una telefonata però sì, sarebbe felice, questo lo so, in un giorno qualsiasi ma più ancora in un giorno di compleanno. Perché in un giorno di compleanno chi è solo è solo con più accanimento. E Fazil’ è solo, questo è un dato di fatto, e io non posso che registrarlo: registrarlo e poi contemplarlo. Talvolta, spesso, mi ci soffermo, e sono variazioni minime sullo stesso tema: palazzi rossi e portici grandi, terrazze, piazze e vento nei vicoli lubrichi, e scricchiolii, e fanali e ombre, e sempre tutto è faticoso, terribile e grottesco. Letteratura insomma. Gli sto vicino così, da lontano. Per finta. E lui mi manda mazzi di fiori, coniglietti e cuoricini e per un tempo piccolissimo mi sorprendo a volergli bene, e poi per un tempo lunghissimo me ne scordo, e penso che no, non posso prendermi cura di lui.
    Ma non puoi nemmeno prenderti cura di Michele. Perché no? Perché c’è quell’altro, quello dei gatti, della spesa e delle valigie grandi, quello che è inteso sussistere, pur nella sua insignificanza, esattamente a questo scopo, di prendersi cura di lui. E se lo faccio anche io? Non ha senso, ridondi.

Il professor Mamurio riprese a dettare: “At artifices omnes recusaverunt propter maximam rei difficultatem, praeter unum excellentissimum…” il fabbro degli scudi variopinti… Fazil’… il grumo di luce di luna… E pianse. 







venerdì 2 ottobre 2020

All'incirca amore 1



Le calze gialle

Mi piace quella bimba con le calze gialle. Non gli piaceva solamente, la bimba con le calze gialle, la amava di un amore grande, molto più grande del bimbo che lui era. Ma non lo sapeva dire. Diceva mi piace e voleva dire che quando la vedeva arrivare con le sue calze gialle, e le scarpine color mattone coi bottoncini (due bottoncini color mattone, uno per scarpa), allora nel suo piccolo stomaco di piccolo bimbo si formava quella palletta piccola, ma pesante, che era insieme come una palletta e come un buco, un piccolo foro che dal suo piccolo stomaco dava fuori, nel groviglio degli altri visceri. Non sapeva come spiegare la palletta che era anche un buco, non aveva il vocabolario: intuiva che servissero parole diverse da quelle che possiedono i bimbi, ma non sapeva a chi chiederle. Né soprattutto come chiederle.
   Alle suore no: le suore non hanno nozione mai della palletta nello stomaco, perché loro amano solo il loro dio, che non fa sensazione della palletta nello stomaco, né del buco. Fa la sensazione della felicità. Il loro non è un amore difficile, come quello dei bimbi per le bimbe colle calze gialle. È una cosa facile, che sta già dentro la programmazione delle suore, quando le progettano. Sennò non funzionerebbero, non potrebbero prendersi cura dell'asilo, della cucina, delle tirocinanti e dei bimbi. Suor Adriana perfino si prendeva cura dei denti: quando il dentino lo sentivi che ballava ti mettevi in fila, nel pomeriggio nel salone con le sedie in cerchio, e lei con una cura e insieme una cattiveria che solo le suore, forti del loro amore sereno per il dio, che significa altro dal bimbo, possono esercitare e, con la calma serafica delle sostanze volatili, prendeva il dentino con le dita, ma era come dire con le pinze del dentista, solo più rosa, e con un atto di forza sovrumana, un esercizio di potenza istantanea, un movimento senza movimento e senza ripensamento, senza possibilità di ripensamento, lo spiccava dalla sede sua.
   Non poteva chiedere alla suora: suora come si dice quella cosa che sembra una palletta e insieme un buco, che viene nello stomaco quando vedo la bimba con le calze gialle? Anche lei non possedeva la parola per dirlo. Peggio, non possedeva la nozione che quella parola doveva dire: era un'impresa disperata e inutile.
  Non poteva chiederlo alla mamma: le mamme l'hanno dimenticata, la sensazione della palletta e del buco dei visceri.
   Poteva chiederlo al papà, e infatti provava a chiedergli. Ma gli veniva solo di dire papà mi piace la bimba con le calze gialle. Il papà lo guardava con amore grandissimo e aspettava che il bimbo aggiungesse qualcosa, perché i papà sono timidi, non sanno prendere l'iniziativa. E il bimbo però non sa procedere oltre, e allora stallano. Si guardano come se si capissero, ma è solo perché vorrebbero capirsi. Invece non si capiscono.
   I babbi non sanno parlare, e non sanno dire senza le parole. Il che non sarebbe grave, se non fosse che a volte non sanno nemmeno capirle, le parole, figuriamoci le cose dette senza le parole. O con le parole sbagliate.

Mi piace quella bimba con le calze gialle, e dovrò gestire questa situazione scabrosa da solo. Per prima cosa descriverò dunque la bimba, onde dotarla di una consistenza condivisa: ne farò il comune terreno di discorso, laddove voi e io ci intenderemo.
  È una bimba lunga lunga, con le guance grandi. E gli occhioni. Il resto sono pezzi soliti: capelli, naso, braccia, pancia, piedi. Il collo però è lungo e le gambe sono gialle. Potremmo domandarci, in prima istanza, se siano le gambe gialle che fanno di questa buffa creatura minima il perno di tutta la mia vicenda infantile. In caso affermativo sarebbe da stabilire il perché.
  E se fosse invece la bimba delle calze gialle per la necessità di un indicatore univoco? Questa cosa non l'ho mai capita, la faccenda della priorità logica, e materiale, e causale delle calze gialle. Da dopo che è diventata la bambina con le calze gialle i due piani si sono irrimediabilmente sovrapposti. E del prima non ho memoria. Le calze gialle definiscono la bimba e dunque anche la causano, formalmente, e ne fanno ciò che è, e cioè quell'essere minimo che mi scombina il dentro. Senza garbo, senza mitidio, senza rimedio (sin pudor, sin razón).
  Mi rifiuto tuttavia di ricostruire la sequenza temporale degli eventi a ritroso: ogni analisi a posteriori è falsa, ogni analista, sia pure tu stesso, un cialtrone, che fa essere andate le cose come bello sarebbe fossero andate, come belleppronte premesse verisimili di una prevista conclusione fattibile. Devo quindi tornare all'inizio, ma non per via di recupero. Ma come allora? Per quanto mi sforzi, non arrivo a nulla: non trovo la bambina prima delle calze gialle, o a prescindere da esse. Ne deduco che la bambina ha le calze gialle da sempre, dove da sempre significa da quando è entrata nel mio quotidiano universo, a mitigarne l'orrore.
 Il mio quotidiano universo, qui all'asilo, è fatto infatti di enti spaventosi, a vario grado: il moccicone, il piscione, il morsicatore, i settenani di gesso, il riso scotto, il riposino. In questo gabinetto delle meraviglie a contrario le calze gialle si sono imposte, con subitaneo mozzamento di fiato e strizzamento di visceri, con l'evidenza dell'inevitabile. La bambina sta davanti all'altalena. E da parte della scena — altalena, papero a dondolo, nanetti di gesso, funghi a pallini, panchine gialle, armadietti sul fondo — diventa nell’istante la scena tutta. La scena e il retroscena, e il pubblico e il teatro tutto della memoria. Il grembiulino rosa con il contrassegno del jolly, la creatura fantastica mista di spaventapasseri e giullare variopinto, coi campanellini alle falde del mantellino a spicchi, il collare duro a punte e una corona di cartone, che nella figurina pare d'oro fino. Con pietre di diamante… — E tu che contrassegno hai, bimbo? — Io ho il fanale da burrasca. E l’orologio a polvere. La caligine. La disgreganza. La ghiaia. Il gridore del tuono. Le tempeste d’acciaio. — A me sembra un coniglio — È un coniglio pieno di dolore, però.

Forse la bimba è le calze gialle. Forse la bimba è le calze gialle? Chiedo al mio doloroso coniglio. La bimba è le calze gialle, sì, dice il coniglio, che sa le cose, perché prima era un papero. E ora aprirò la mia anima alla folla chiassosa, dice, perché è un male troppo grande da tenere per me solo. O forse questa scena del coniglio l’ho solo immaginata.

Le calze gialle, germinate dal grembiulino nella scena precedente l’intrusione del coniglio, acquistano in quella successiva un’esistenza quasi autonoma. La bimba è le calze gialle, ha ragione il coniglio, e io sono il loro narratore. 

giovedì 1 ottobre 2020

All'incirca amore 2

 


Orizzontale


Trutrunc trutrunc; trutrunc trutrunc; trutrunc trutrunc; rumore di treno da dentro il treno. Clong. Brekekekeks coaks coaks; rumore di rane finte.

 

Sul treno sta seduta la Bimba. O in piedi, se salita troppo tardi. Ha occhi molto poco innocenti, molto poco innocenti abiti. Ha statura mediana, stazza mediana, di peso ben distribuito. Baricentrata giusta. Alquanto compariscente. Ancora lui non sa, ma ha attorno alla bocca vaghe pieghe catalane, marchio certo di strega. Ha anche libri, imperdonabilmente sottolineati a penna, e una borsa di stoffa a strisce, con dentro penne colorate, matite, gomme da cancellare e altre da masticare, forcine, assorbenti, braccialetti di perline e scontrini appallottolati. Poi la calcolatrice, il borsello di feltro e taluni ranocchi, anch’essi di feltro verde. Infine, e soprattutto, ha spalle larghe, quasi a dirsi nuotatrice di professione. Non brilla negli studî.

 

Triangoli trapezî forme quadre, Topazia forme quadre: dica, nuota? Dice: no; però… – Però?– Però lo chedono tutti – Chi tutti? – Tutti – Già; tutti. E tutti gradiscono lo spettacolo marziano degli stivali a coscia (coscia breve padana) – Pardòn? – Stivali marziani e pantaloni d’argento, sente? (primo tentativo di saggiare la coscia; soda; bene) D’argento e d’amianto, “filati d’amianto, pantaloni del santo”; rammenta? – Pardòn? – Troppo giovane. Già; e però non nuota – No – Nessun ausilio, dunque – Ausilio? – Aiuto, nessun aiuto, niente sostegno, manutenzione, cura. Cadeau naturale. Parbleu! – Dica? – Parbleu! Perdiana! Cospetto! Cospettone! Non capisce. Forse è solo questione di vocabolario: qual stima, signorina, esser la consistenza del suo vocabolario? Traduco. Dice: Mille – Mille cosa? Non sa – Nomi? – Nomi proprî d’uomo? M’astengo – Boh. Nomi, parole… – Anche verbi? Abbiadare, abbonacciare… Guardamento vuoto. Già. Lo scafandro astrale stivalato a coscia mi blocca, m’indispone, m’irrita. Al più mi irrita. Ma la femminea stupidità imperscrutabile mi ridesta il sensorio, e lo ottunde: i ricettori sono ottusi: farsi come il percepito, il percettore diviene ad esso identico. Perciò mi ottunde il sensorio. Strega. Manterrò tuttavia una certa dignità. Tredici secondi di dignità; guardamento vacuo; fine della dignità: mi dia il telefono. Non quello, il numero. – No. – No cosa? – No – Scuse improbabili: il fidanzato, la mamma… La mamma? Anche la sua una discreta rompicoglioni, con rispetto parlando: tutte uguali. Mah. Ma la sua mamma non m’interessa. Forse; magari; avrà la mia età: Mi dia il telefono di sua madre. – Perché? – Non capisce. Non capisce nulla. Meglio.

 

Accanto alla Bimba, dopo molto cauto avvicinarsi di mesi, sta seduto il professore a contratto. Malpagato. O anche in piedi, se la Bimba è arrivata troppo tardi. Ha occhi scuri, abiti tranquilli e sempre i medesimi. Ha statura ragguardevole, struttura ben strutturata, leve lunghe e peso modesto, per la statura. Piedi un po’ troppo piccoli. Non fragoroso nell’aspetto, ma notevole, dopo notatolo. Molto impacciato nell’approccio, si forza all’azione. È tuttavia raro che smetta la sua lorica loricata di pelle di drago, e una volta smessala trovasi vulnerabilissimo. Si rifugia nella letteratura. Cogli studenti usa d’abitudine il lei.

 

Scrivo, non scrivo: vede? Non mi concentro, non mi ci addentro, non mi capacito; m’agito; l’abito: descrivo l’abito; le scrivo, l’abito; ti scrivo, tacito, a te, di te, per te: “Per la…”. “Per la perla”. “Per la perfida perla” scrivo con questa penna e con questa matita; scrivo: “calamita”, pietra calamita, calamo e matita, carta e calamita, calamo e pepita, perfida pepita, sasso, calamitoso sasso, sconquasso, perostinato basso, calandra, calandretta e pispola (uccello in realtà assai diverso dalla calandra, per figura e per abitudini. Molto simile al prispolone.). Scrivo: vede? Scrivo “pepita”, scrivo “calamita”, scrivo “mia ferita”, scrivo scritte; scrivo triangoli, quadrangoli e pentangoli; scrivo numeri pari e numeri impari, dispari e perfetti. Scrivo: vedi? le soluzioni vere, i fatti risultati e gli esiti mancati. Scrivo le somme e i conti. E i canti. E i santi. E i pantaloni amianti, dei santi. E l’abito; scrivo l’abito e m’agito. Non mi capacito; scrivo e non scrivo; scrivo in corsivo: vede? – Certo che te sei strano – Tu, benedetta bimba, tu. – Io? – No, io! – Te?

 

Il professore a contratto, malpagato, tiene ciò nonostante il corso a contratto; lo fa per ragioni di famiglia, essendo che tiene un figlio, oltreché una moglie; una moglie carina, che però non lo considera. Non lo considera e neppure lo desidera; però non lo contesta; solo, talvolta, lo detesta. Talvolta lui spera che lei prenda infine coraggio e fugga col Zorro, quello che le scrive i messaggini. Occorrerebbe, certo, che il detto Zorro fosse un poco più abile di lui, nel delineare e porre in atto un piano d’attacco in proposito. Forse per disabitudine non è infatti egli particolarmente accorto nella scelta degli argomenti, né, va detto, nella gestione della forma espositiva dei medesimi. Perciò forse, perché non ben comprende gli scopi del suo parlare strano, Topazia non cede al fascino pur innegabile del soggetto.

 

Sarà perché è stata a scuola dalle suore. Però, vede, anche il Cartesio è stato a scuola dai Gesuiti. Ora, tralasciando le ovvie differenze tra i Gesuiti, e dico i Gesuiti del Seicento, dico gli allievi del Clavio, dico il buon Père Noël, nome infelice che gli cagionò dileggio, con tutto ch’era un grande, mi deve credere, tralasciando, dicevo, le differenze tra i Gesuiti e le suore suorine, e lo dico con tutto il rispetto per le loro testoline vuote, ripiene di divozione, la quale, tra parentesi, noi della divozione ce ne fottiamo, nevvero? per dirla col vecchio Palamede. Bel nome, Palamede, non trova? Se non fosse che poi magari mi veniva finocchio, l’avrei proprio proprio chiamato Palamede, il mio figliolo. Palamede o Renato. La Marta diceva Tlepolemo, o Antoniopizzuto, tutto attaccato. Ma dicevamo del Cartesio, e c’interessa qui di notare non la solida erudizione, e l’abitudine al ragionamento ragionante ch’egli senza dubbio veruno mediò dai suoi maestri, per quanto non gli piacesse d’ammetterlo, non questo, ma la rivolta che sempre, e direi proprio in virtù del suo esser stato alla loro scuola, egli maturò didentro, e di fuori, contro quei buoni padri, fino a rinnegarne i principi, fino a stravolgerne i costrutti, financo, pensi, financo a barattare il loro Iddio col suo spazio. Lo spazio, ha capito bene, lo spazio cosmico e siderale, infinito e inspiegabile, e perciò impasseggiabile, se non con gli opportuni e a lei ben noti stivali astronauti, e pantaloni d’amianto, pantaloni del santo, curiali e mercuriali. Lo spazio siderale, Topazia, che s’incarna in quello geometrico: grandioso! Gli assi cartesiani come orizzonte di senso, un’escatologia iperbolica, un catechismo agapico-asintotico, ascisso e ordinato; un genio! Ora, io non mi permetterei mai di esiger da lei questo, la inviterei però ugualmente alla rivolta, una sua rivolta minima contro le suorine, una presa di coscienza: si orizzontalizzi, Topazia, orizzontalizziamoci… No cosa? Che c’entra ora l’orologiaio? Dice era quello il dio del Cartesio? Forse ha ragione, forse mi confondo col Newton, certo, non fa ad ogni buon conto nessuna differenza. E poi da quando mi s’è fatta dotta? Piuttosto che orizzontalizzarsi, vero? Qualunque cosa purché non s’addivenga all’atto, vero? Inazione, Topazia, stallo totale e cosmico; il freddo siderale. E non mi tiri fuori, la prego, la storia del sottoscala. La reco altrove? Dove?

 

Il professore a contratto si trova sprovvisto di luogo acconcio ove recare la Bimba, nell’eventualità di un suo ormai quasi insperato cedimento. La conduce talvolta, per i suoi disperati esercizî dialettici, nel sottoscala del dipartimento, luogo scarsamente frequentato, non squallido ma non aprico. Ivi apprende egli, in una luminosa mattina di maggio, l’inutilità dei suoi seppur minimi tentativi di procurarsi l’accesso ad un più ameno locale. Come paventato, non ha infatti Topazia in particolare abbominio la penombra incerta dello stambugio ipogeo; piuttosto, afferma, sèntesi ella impedita all’atto da rigido ammonimento interno. Forse per via di certa sua infanzia un poco conventuale, per via di certe modeste suorine, monacali d’abito e di modi, sorde d’utero e d’intelletto sconfitte, e però gioiose sempre: del poco pensare, del poco mangiare, del mesto vagare pei corridoi del collegio, giunte le mani, i pensieri al cielo. Non certo invincibile la loro logica: s’ella davvero ha lì appreso l’arte della disputa, allora la confutazione si spera immediata, e presta la vittoria, con tutto il buono ch’essa implica e delinea, e che qui ancora non si dice. Si dice invece della Marta, collega a contratto malpagata, amica da lungo e sodale, donna di durissima cervice e di pedante protervia, sommamente presuntuosa e prodigiosamente fastidiosa, epperò saggia, molto saggia al consiglio, forse per via di certa sua infanzia un poco conflittuale. A lei il professore gradirebbe chieder consiglio, non fosse che già sa ch’ella non comprenderà nulla, ma proprio nulla di ciò ch’egli andrà a dirle. Forse per via di certa sua sustanzia un po’ troppo intellettuale… 

 

Dice non è il sottoscala. – No. – Cos’è, allora? – Il senso di colpa. – Il senso di colpa? Per chi, benedetta fanciulla? Per cosa?  Non sa. Il senso di colpa in generale, come nozione astratta. Come stato dell’anima… Niente di solido, dunque, azzardo: una banale ostruzione metafisica? Ma l’ostruzione metafisica (ora non badi ai termini, Topazia, si fidi di me, segua il ragionamento) l’ostruzione metafisica, in quanto costrutto astratto, non è difficile da divellere, se solo l’analizziamo per benino. Lo decostruiamo, Topazia: venga con me nel mio ufficio che decostruiamo insieme questo costrutto teorico ostruttivo. “Venga con me nel mio ufficio che decostruiamo insieme questo par di coglioni”, ha detto Marta. O forse me l’ha scritto, sì di certo l’ha scritto, non dice mai troppo crasso, scrivere invece lo scrive. Quando era piccola non diceva nemmeno “cesso”. Era una bimba noiosa, noiosa e giudiziosa. E brava, tanto brava: “Hai qualcosa di cui chieder perdono al Signore Iddio, Marta?” – “Sì, ho disobbedito alla mamma, non tengo in ordine la cameretta, angario e vesso Iago…” Che palle! “Topazia, tu invece, cos’hai fatto stavolta? Dillo al signore, che è buono e perdona” – “Mi son fatta metter le mani di tra le puppe.” – “Oh! E da chi, Buon Dio?” – “Dal Mario, dal Mario e dal Gino. E da suo fratello, del Gino. E da Rino. No, forse no, da Rino no, non ricordo, è importante, don?” – “No, non fa nulla. Ma dì, piuttosto, e il corso di nuoto?” – “Io non faccio il corso di nuoto!” – “Ah, non fa nulla”. Però Marta alle medie aveva per compagna di banco Loscomaria. “Questo è lo spermatozoo di Salvo. Così grosso?” – “No” le spiega la Marta, per sentito dire dal libro di scienze: “Il disegno del libro è ingrandito. Così grandi sono i girini” – “Ah, ecco perché non ce n’erano sul giubotto di jeans” Loscomaria diceva “giubotto”, con una b sola e mostravalo con chiazze chiare, come di bianco d’uovo rappreso. Salvo è il fratello di Santo, che fa il cameriere da Don Francesco. Con Loscomaria praticava l’arte della fuga profilattica. La sua amica Salvina, che gradiva giungere illibata al matrimonio, adottava altre pratiche, di tipo posteriore. Lo raccontava Loscomaria alla Marta. Alla Marta che non diceva nemmeno “cesso”.

 

Intanto Topazia non è più ferma. Si smuove, si muove: alterna agli scarti di lato anche dei passi avanti; piccoli passi avanti, estorti, sofferti, poco consensuali, molto minimali, passi contati ma continui. Forse anzi lo segue, forse lo sta seguendo… S’arresta:

 

No, Topazia, cos’hai capito, non ti reco nel cesso. Mai mi permetterei. Ti reco nell’ufficio, ch’è luogo dignitoso: Vieni meco, Topazia! – (silenzio perplesso) – Sì, insomma, sèguimi! Mi segue, ma a passi lentissimi, e più ci si avvicina al dunque, più i passi sono lenti, e più son brevi. Le dico: Vieni, bimba zenoniana! le dico: Àmbula, mio asintoto. Non gradisce, non gradendo del resto alcunché che abbia a che fare con la geometria. – Non è la geometria in sé, è l’esame. – Già. A quell’età misurano tutto in esami…: Esaminiamo allora da vicino questo costrutto astratto, le dico – Quale? – Il senso di colpa, Topazia, il tuo senso di colpa, che t’impedisce di orizzontalizzarti, come sarebbe anche il caso, ora che son passati vari mesi di inazione… Perché vedi, il tuo, Topazia, è un gran bel senso di colpa: corale, lirico, quasi cosmico. Se non fosse ch’è comico. Ridicolo. Nella tua forma d’ossa e di polpe che la madre ti diè, mia poco loica donna, tu non nutri un senso, ma un controsenso: né pentere e volere puossi insieme, per la contradizion che nol consente. Il Cartesio lo sapeva bene. Se anziché dalle suorine fossi andata a scuola dai Gesuiti, lo sapresti anche tu, che il senso di colpa abbisogna della colpa commessa: non assolvimento prima del pentimento, no rimorso prima della colpa. Vuoi il senso di colpa? Commettila, son qui per questo, per trarti dalla lacerante contraddizione in cui ti sei cacciata, ch’è uno stato insostenibile dell’anima. Tra l’altro, stanotte ho sognato Igor, che mi dimostrava per assurdo la non congruenza di due certi triangoli. Lì per lì mi convinceva, poi notavo che assumeva l’esistenza di Dio. Gli ritelefonavo… – (silenzio) – Già, che lei non gradisce alcunché che abbia a che fare con la geometria: Iddio ancora ancora, la prova ontologica, forse che mai…, ma i triangoli no. – Non è la geometria in sé, è l’esame. – Già. A quell’età misurano tutto in esami…: Esaminiamo allora da vicino questo costrutto astratto. “Esaminiamo allora da vicino questo par di coglioni”, ha detto Marta. O forse me l’ha scritto. È che la Marta non capisce. Si vede non ha mai avuto a che fare con un bimbo. E che le farebbe bene, dico. Le dico: mi basta di sentir nominare la Topazia, ma non lei, anche la mamma, la sorella, la strada dove sta, il tram che prende… Mi dice, la Marta: “anche Proust”. Dice: “ascolta, Iago, c’è Bernhard alla radio stasera”. Bernhard mi piace tanto, ascoltarlo alla radio, come anche alla Marta, ma ora mi piace più accudire il pensiero di Topazia. Anche pezzi, pezzi di pensiero e pezzi di Topazia: le ascelle, gli alluci, le mani di Topazia sui fianchi di Topazia, le mani di Topazia sulle spalle di Iago, le mani di Iago sulle spalle di Topazia, le spalle di Topazia sui fianchi di Iago, le natiche di Topazia… no, così non va bene, è un esercizio di esasperazione eccessiva. La Marta non capisce. E che le farebbe bene, dico. Sarebbe un colpaccio: alla Marta – Marta Robinson, la signora Marta Robinson, collega a contratto del Conte Mascetti – alla pedantissima Marta, che le capita lo studente: il pericolosissimo studente. Così, tra capo e collo, diciamo Federico, per gli amici Fede.

Prima cosa, la Marta impara a scrivere i messaggini: messaggini pedanti ed oltremodo eruditi: dapprincipio è terribile: entimema, anatocismo, banaùsico… non ci sono, nel telefonino, siffatti termini essenziali del linguaggio erotico della Marta. Li deve compitare ogni volta, lettera per lettera: le ci vogliono dai tre quarti d’ora all’ora e tre quarti: “Quel nostro caustico ampletterci, e banaùsico… breve stilla d’infiniti abissi… in dismisura, Fede, l’assenza tua mi china a tristizia… la persona mia che tutta si disquassa, la persona mia che tutta s’inabissa…” Ah! grandiloquente, geroglifica, epimonica Marta! Stona solo, forse un poco, quell’apocope…: Non hai un amico, Topazia? (con lei non posso, ahimè, azzardar l’apocope) Il biondino: non vuoi che lo presentiamo alla Marta, il tuo fidanzatino? così insieme ce ne liberiamo, e diamo un senso infine a questa nostra storia? Anche se storia è un termine grosso, ché storia non ci può essere, Topazia. Trattasi piuttosto di stato, di situazione, di postura dell’animo: una postura però innaturale: manifestamente, chiaramente e inequivocabilmente ingestibile, per quanto meravigliosa; un qualcosa di destinato a collassare, che è anzi necessario che prima o poi collassi, e ciò nonostante mi è fastidiosissimo pensare a quando ciò accadrà: A te non reca fastidio, il pensiero della fine? Dimmi qualcosa, stupida bimba, ogni tanto dimmi qualcosa… È straziante, frustrante e deleterio. È irresponsabile, anche, ma non temere, che ne sono perfettamente consapevole. È solo che ho deciso di concedermi un lusso: il lusso di questo mondo parallelo, assurdo e bellissimo, Topazia, dove tu per natura passeggi coi tuoi stivali marziani, e dove io contro natura m’addentro, controverso, in contro senso, in contro tempo… Ma debbo farlo, Topazia, che questo solo è il posto dove voglio andare: questo posto assurdo, fantasma, fasullo; questo spazio di parole vuote e segni disperati, di grida a distanza, di costanza, di rara pazienza, e però di tangenza. Anche. Di asintotica tangenza, Topazia, di tangibile tangenza. E di pazienza. Di potente pazienza, di paziente potenza, di potente potenza…