domenica 13 settembre 2020

Orizzontali 1

 


Basso Continuo

 

Ei ringhia d’alte

ghiaie, latrina d’

atri laghi. D’ènei

draghi tien ali e

artigli ne ha, e di

Arghi tien laide

le dita. E ringhia.

 

In questo tristo stato le parole m’abitano: s’agitano e m’agitano, com’oriuolo a dondolo.

Da bimbo tacqui a oltranza: per pigro o per distacco, per scacco o per errore, o forse petulanza di sorella maggiore. Stanotte settenarî. La scorsa notte, invece, non dormivo per un eccesso di elle (lastre a losanga, lepri, liuti), ma patisco anche i palindromi, gli anagrammi ed ogni maniera di lemmi. Quale legame, se legame sussista, tra l’opulenza presente e la passata pigrizia verbale, mi son domandato assai volte. Sempre me lo domando nel non dormendo, nel quale luogo gerundio-temporale anche mi ripeto le terzine dantesche che per lungo studio, e grande amore, ho appreso il giorno. Poiché volentieri e spesso nel ripeter m’indormo, ho maturato un pensiero di salvazione, stando al quale la quotidiana infernal pratica di apprendimento coatto sarebbe da ritenersi apportare giovamento e non, come potrebbe apparire, nocumento all’insonnia periodica che soffro. Anche questo l’ho pensato invece di dormire. Che non si tratti tuttavia di opinione peregrina me lo conferma l’interesse medio che per essa ha manifestato il mio medico di base, il dottor Pastapane, persona che, va detto, di solito non mostra alcuna cura per il paziente, né tantomeno per le di questi patologie, se non quando le stesse non si palesino con evidentissima evidenza di gravità grave. Parte egli infatti dal presupposto che il paziente si lagni per ragioni che, lungi dall’inerire alla sfera medico-chirurgica, vanno piuttosto a tangere quella personale, personale di lui: percepisce egli il paziente come nemico, e ne subisce l’azione come azione di disturbo. 

            Taluno per rispetto della posizione del medico, talaltro per timore delle reazioni eccessive del medesimo, i mutuati si risolvono dunque a varcare la soglia dello studio di Pastapane solo in caso di estrema necessità. Contro i pazienti indifferenti alla guerra psicologica, il medico ha del resto provveduto a fare installare nella sala d’aspetto un grazioso televisore monocanale del ministero della salute, che già sarebbe di modesto fastidio se si limitasse a trasmettere e ritrasmettere ad oltranza la stessa sequenza di brevi insulsi documentari di argomento nosocomico per cui è stato evidentemente progettato, ma che qui diviene addirittura molesto per via del volume, che Pastapane ha deliberatamente imposto al livello massimo, ai limiti della distorsione sonora, prima di manomettere la manopola. Sono stati in tal modo selezionati i mutuati psicologicamente inerti e quelli sordi, che frequentano con regolarità la sala, e vi fan piacevole tumulto, nonché i rarissimi pazienti veri, che periodicamente necessitano di visita, o di ricetta.

            Questo per dire che per semplici motivi di insonnia non sarei mai andato nello studio di Pastapane, e men che meno nella sua sala sonora, ma quel giorno necessitavo ch’egli mi recasse in ricetta, e in relativa terapia farmacologica mutuabile, il referto geroglifico vergatomi da un tale medico specialista, cui mi ero rivolto per scoprire che il mal di schiena che m’affligge da mesi va diagnosticato come malattia di una certa qual gravità. Pare infatti che io soffra di una patologia neanche troppo rara caratterizzata all’esterno da dolore di schiena e all’interno da uno stato di cose alquanto confuso, e al momento lungi dall’essere adeguatamente compreso. Quel che si sa è che il dissesto locale va almeno in parte ricondotto ad un anomalo e dissennnato comportamento di una parte della liquidità sanguigna, che non riconoscendo più taluna articolazione qual sorella, le si fa ostile, e sconsideratamente impiegando suoi potenti mezzi, la nuoce. Stando alla letteratura medica ciò provocherebbe nel malato, e cioè in me, dapprima infiammazione, indi dolore e di poi guasto all’articolazione, di cui verrebbe col tempo messa in periglio la naturale, ed utile, duttilità di snodo. Stando all’osservazione diretta ciò provoca altresì nella madre del malato, e cioè in mia madre, dapprima apprensione, indi dolore e di poi guasto alla ragione, di cui viene subitamente annientata la già naturalmente scarsa nella donna attitudine al sillogismo: dalle premesse esposte la madre conclude dunque la necessità di una rapida pietrificazione e compattificazione della struttura ossea del figlio in un unico pezzo, l’Osso Totale, e non è facile convincerla che, pur non configurandosi come impossibilità logica, l’eventualità da lei prefigurata non è tuttavia così frequente. In ogni caso pare sia opportuno assumere farmaci che contrastino il processo, e all’uopo appunto mi recai da Pastapane: gli dissi perché venni, e quel che intesi fu che assai poca fede egli prestava a diagnosi d’altrui: “E in primo luogo, disse, non ti fida del reumatologo, ch’elli è bugiardo, e padre di menzogna”.

Siffatta iniziale velata diffidenza, Pastapane la sviluppò quindi in un mirabolante crescendo dialettico: dopo aver argomentato in positivo la falsità della diagnosi particolare passò alla dimostrazione per assurdo della infondatezza delle diagnosi in generale e con altre forme più subdole, ma assai più deboli, di deduzione da un’ipotesi arrivò a mettere in dubbio dapprima la correttezza deontologica, indi la stessa consistenza ontologica del reumatologo, in quanto tale. Non mi fu facile scalfire dapprima col dubbio filosofico, e demolire infine col controesempio radiologico e coll’ausilio di tre reumatologi esistenti, oltreché consenzienti, il suo approccio a priori. Solo allora acconsentì a segnarmi le medicine curative, e non so per quale ragione, nel mentre ch’egli scriveva mi venne di parlargli dei miei problemi minori: “Dottor, faccio il mal sonno…”

Attento si fermò, com’uom ch’ascolta, laddove io mi ero invece figurato una reazione di stizza.

– Come si manifesta, la sua insonnia? 

– Col non dormire – risposi un po’ stolidamente sorpreso dall’inusitata mostra di interesse. Intuii l’errore, e nella speme di salvar l’idillio soggiunsi alcune ancor più stolide frasi di circostanza, passate probabilmente inudite a causa del fragore di fondo proveniente dalla sala d’aspetto, cui feci però seguire la seguente descrizione sommaria, a tratti dettagliatissima, della patologia.

– Tutto comincia con la netta sensazione di star per non addormentarmi.

– Che tipo di sensazione?

– Di solito è la sensazione del gatto padule.

– Lei vede il gatto padule?

– Certo che no, cioè, non vedo il gatto, ma ne vedo il nome: gatto padule, il nome, capisce?

– Il gatto padule solo lui?

– Solo lui.

– Strano, e la gran bestia baradinera?

– No; però poi segue l’annunciazione, quella ufficiale: io son già disposto tutto quanto, di là dal sonno, quando vien l’arcangelo Graziello, ciclista anapestico di estati statuarie, di gonfioni e bielle, di nodi e di rotelle. Questo sempre; il resto invece, quel che viene dopo, cambia ogni volta: biedoni, ciurme, albumi, galappi e rumba, palagi d’incantatori, puro ordimento delle parole; senza ch’io vi partecipi, subisco. Subisco tutto: il suono, il ritmo e il metro, la quantità e la rima, e l’allitterazione. Se ne resto stordito, magari m’addormento, ma quasi mai ciò accade: più spesso sopravviene il pappatacio flebotomo (non il nome, l’insetto), sicché anche questa sonnolenza, picciola, mi è tolta, e senza più cura aver d’alcun riposo, ridesto e vinto, ritorno alla parola, dalla qual furon maggior sonni rotti: gatto padule, d’egual patto pagato t’eludo pelago d’utta. E ‘sta nappa? Santa pepa, Pastapane! Le sue permutazion non hanno triegue! Vede come anagrammo? È un vortice, secondo lei si può dormire in questo stato?

 – Quasi peggio che nella sala d’aspetto!

– Sì, però c’è un trucco. Siccome le parole su cui opero fan tutte parte della lingua italiana, sarà d’accordo con me che le probabilità che prima o poi venga fuori un pezzo di un verso di Dante, o un qualcosa di ad esso assonante, sono altissime. E infatti ciò è quel che accade di norma. Prenda questa: Dio, come la piroga di poco ramo è agil, / poco rigidae l’amo! Sulla piroga c’è chiaramente Caronte, che batte col poco ramo qualunque s’adagia, e ne ho per qualche minuto a finire il canto (noti che è proprio lì che Dante cadde come l’uom cui sonno piglia), ma se ciò non basta, passo alla rigida giustizia che mi fruga e quasi certamente quando arrivo a quello che sogna che sognando desidera sognare, ecco m’addormo.

            In spregio alla poca curanza che ho già detto Pastapane mostra per l’interlocutore, stavolta ebbe come un sursalto di entusiasmo: 

            – Siamo sulla strada giusta, mio buon paziente, oserei dire che siamo in principio alla via di salvazione. Penso di sapere come liberarla dalla sua insonnia ossessiva; cosa fare è ovvio anche a lei, immagino: occorre distruggere quelle sue parole vuote. Il problema è come farlo, ma io ho in mente un metodo geniale, da me medesimo elaborato e denominato curagione discenditiva: il trucco è semplice, basta trasformare le sue parole in nozioni, e le nozioni in cose. Ha presente quando l’Eriugena dice che la materia è un coagulo di intelligibili? Chiaro che la materia è per noi più maneggevole dell’intelligibile: la materia è sorda, io amo le cose sorde, ed è inerte, ed io amo anche le cose inerti. Una volta che le sue parole saranno diventate cose, semplicemente le distruggeremo. Anzi, è ancora più facile, perché la cosa da distruggere sarà una sola, se avremo fatto bene il nostro cammino, restringendo vieppiù il cerchio, e continuando a scendere, giù giù sino al perno su cui si regge il tutto, perno che lei già fin d’ora sa, ma ancora non lo sa quale causa scatenante della patologia. Siamo d’accordo: primo passo, arrestare la proliferazione dei nomi. Secondo, soggiogar di giogo quelli rimasti. Terzo, precipitarli in cose. Quarto, isolare la cosa malvagia.  Orsù, mio buon paziente, mi segui, che io sarò sua guida: ha lei esperienza di infiammazioni delle vie urinarie?

            – Non moltissima.

            – Deve allora sapere che la causa più frequente delle infezioni delle vie urinarie è l’Escherichia coli, un batterio naturalmente e necessariamente presente nell’intestino degli animali a sangue caldo. Poiché nel suo luogo naturale, cioè appunto nell’intestino, la carica batterica fisiologica viene mantenuta costante dalle condizioni ambientali, qui l’Escherichia non fa danno, fa anzi il suo mestiere, offrendo resistenza alla colonizzazione di germi patogeni, immunomodulando il sistema immunitario della mucosa intestinale, attivando la produzione di IgA secretorie e producendo Vitamina K. Se però lei lo colloca nel posto sbagliato, vale a dire, ad esempio, nella vescica, esso si moltiplica a dismisura e reca danno. Così deve pensare si sian moltiplicati anche tutti quei suoi fantasimi linguistici: per avvenuta dislocazione, per qual motivo non so, in luogo disacconcio, dove si promiscuano e sfigliolano, e poi fanno romore, e al romor fenestra, ond’ella non s’addorme. Come le spiegavo, occorre innanzitutto arginare la proliferazione, e dunque sopprimer la migrazione, il che di solito si ottiene rispettando alcune norme minimali di igiene: contro le infezioni delle vie urinarie si consiglia un bidet dopo ogni evacuazione e in generale una regolare pulizia delle pudenda, da accompagnarsi all’assunzione per via orale di fermenti lattici, onde riequilibrare la flora intestinale ed evitare stitichezza, e ristagno delle feci; pensi che nelle feci prodotte in un giorno da un essere umano adulto sono contenute dalle 1011 alle 1013 unità di batteri Escherichia. Provi a fare qualcosa di analogo contro quelle sue parole ornate: faccia seguire ad ogni seduta di carattere enigmistico-letterario un qualche lavoro di mezzopunto o di economia domestica: monti delle mensole, levi dei tendaggi, faccia la lavatrice, faccia il suo mestiere di matematico.

            – Posso andare nell’orto?

            – Sì, bene, vedo che capisce: semini, raccolga, ari, sarchi, è indifferente. Questo come pratica regolare. La sera, oltre ad astenersi dalle suddette attività letterario-enigmistiche, assuma pozioni di valeriana. 

Ed io a lui: – Dottore mio, ch’attendo all’orto e al poto di bevanda calma più lune sono, e non perciò dormendo feci buon sonno, e non si sanò l’alma. Da molto ormai non opero di palindromo, almeno non dopo le sette, settemmezza al massimo. Quanto alla matematica, ho dovuto limitare anche quella: mi difendo, nel dopocena, dalle dure dimostrazioni, e in toto dai tentanti teoremi m’astengo, sol me ne concedo i comodi corollari, a cui conduco i controesempi. La pratica dell’orto poi, non ho osservato che abbia impatto particolarmente significativo sulla mia persona notturna, se escludiamo ovviamente la regione lombo-sacrale, laddove ne risento rappressioni, ma di carattere puramente meccanico.

– Come avrà inteso, della sua regione lombo-sacrale, e più in generale di tutte le manifestazioni corporali del male, poco m’importa.

– E perché fa il medico?

– Infatti, volea far il filosafo. O l’uom di lettere. Lei che ha le lettere in capo, vede la curo volentieri.

            Ora non è il caso che riporti per intero il seguito di quella prima seduta, in cui Pastapane non fece che ribadire l’utilità del protocollo di igiene e profilassi con cui intendeva tenere a bada, se non altro in numero, l’orda dei miei nomi. La sera andai a letto di buon’ora: dopo la visita avevo fatto il mio mestiere, invano tentando di spiegar la matematica (una parte piccola d’essa) a una decina di studenti particolarmente inadatti al numero, e in treno avevo letto molto. Forse per questo dopo il gatto padule e l’arcangelo ciclista sopraggiunse Liborio Galfo, il virtuoso del bughivù: “Stanotte sette è pari” – diceva vorticando sulla pista. Portava seco baliste, arcubaliste, onagri, fustibali e funde. “Novo tormento e novi frustatori” m’occorse rapidissimamente, cioè diciotto, poco dopo l’inizio, prima di terminarlo m’indormo. E infatti.

Anche la seduta successiva non offerse particolari spunti d’interesse, dal momento che Pastapane la impiegò quasi per intero a spiegarmi con parole sue quel che io penso del potere salvifico dei versi di Dante. Vero è che la forma barocca in cui egli piegò la linearità del concetto merita forse qualche annotazione. Credo per piaggeria, ripetè più volte la locuzione “soggiogar di giogo”, riferendola alle parole vaganti che intendeva agglutinare in versi, ovvero alla materia estranea morbifica che intendeva addomesticare, come preferiva esprimersi. Tale operazione, che io denominerei più tecnicamente endecasillabizzare, è ciò che avevo cercato di descrivergli all’inizio, e che faccio ogni notte per sortire dall’insonnia. E fin qui le nostre teorie grossomodo coincidono; credo di aver capito tuttavia che la sua interpretazione si discosti in modo deciso dalla mia a livello della spiegazione causale. Ciò che io sono infatti propenso ad attribuire ad una potente azione narcotica dell’iterazione, Pastapane lo attribuisce senza meno ad una altrettanto potente azione ordinatrice, e dunque pacificatrice, della concettualizzazione. Io dico che le parole che mi tendono trappola sono molte e grandi (e difatti è difendermi virile), ma soprattutto sono incoerenti, incongruenti, inconcludenti e inette, sì che il passar dall’una all’altra, di che mi trastullo nell’insonnia, è affar tutto mio, né v’è cammin tracciato, ma come di ragnatelo il passo. A ciò aggiungasi che quando sia particolarmente amabile il nesso da me scoverto, ogni volta stupisco di mia arguzia, e ciò ancor mi sveglia. Denominerò pertanto questo mio stato uno stato di attività attiva, per sua definizione incompossibile con lo stato di passività passiva tipico del sonno. Diverso però è il carattere delle parole dopo intrappolate nell’endecasillabo, che naturalmente si trapassa in quello successivo, con ordine prestabilito dal Poeta, in atto quasi automatico di traslato, che è azione, ma azione che denominerò passiva, naturalmente ed automaticamente iterantesi sino a che perdo coscienza di me medesimo. Questo almeno è quel ch’io penso. Diversamente la sente Pastapane, la cui teoria dice che il costringer le parole nel verso non semplicemente le ordina, e subordina alla trama del Dante, ma conferisce loro dignità di concetti, ordinandole e subordinandole alla trama del mondo. Usa infatti anche la locuzione “riempire di senso quelle sue parole vuote”: dice: “Noi le soggioghiamo al giogo del metro, le leghiamo con una coreggia di sugattolo e ciò le riempie di senso”, e credo questo riveli la sua adesione ad una metafisica di tipo puramente posizionale.

La cosa interessante è che mentre la mia teoria, per quanto generale, può fornire al più una soluzione locale del problema, mostrando come curare ogni singolo episodio di insonnia, la costruzione di Pastapane ha portata universale:

– La ripetizione dei versi – sentenziò quel giorno il medico – è rimedio provvisorio, dacché non rimuove la causa del male, che sono le parole oziose. Non è che perché lei le ha intrappolate una volta, quelle sue parole, la volta successiva loro non ritornano. Anzi, secondo me lei se ne mette in testa sempre di nuove, e da qui a qualche anno darà di matto. Mi ascolti: prima lei le intrappola, e fin qui ci siamo, poi se le fa piacere le ripete anche, ma io le dico che non è questo il punto, giacché l’appagamento delle parole che nel metro s’empiono, il compiacimento dei vocaboli che nel verso s’intelligibiliscono, questo è che nel capo le dipinge quella serenità che lei per sonno sente. Andiamo, non penserà mica davvero che sia lo stordimento del ripetere quel che la conduce al sonno? Prendiamo un altro esempio: lei mi ha detto che impiegava la stessa tecnica di interna recitazione a oltranza quando doveva tirare dei tiri liberi, ma che a differenza di quanto le accade la notte, in siffatte occasioni i risultati erano disastrosi. Bene, oltre a portarmi a credere che lei abbia giocato alla pallacanestro, questo fatto mi porta a concludere che io abbia indiscutibilmente ragione, e lei torto. Mentre infatti la sua teoria peregrina della smemoranza da ripetizione non rende conto dell’imprecisione di traiettoria da lei osservata dopo la dizion delle terzine, questo stesso effetto può essere spiegato, e vorrei aggiungere anche facilmente quantificato, come semplice corollario della mia teoria della pienezza di senso. Le parole piene, infatti, non solo sono più appagate, ma anche ovviamente più pesanti dei vocaboli vuoti: è questa più o meno grande differenza di peso che incide sulla traiettoria del pallone, più o meno fiaccandola, e ciò per banali questioni di gravità, che lei che si professa uomo di scienza ben dovrebbe conoscere; e spero con ciò di averla convinta.

Così posto avea fine al suo ragionamento, l’alto dottore, e attento guardava ne la mia vista s’io parea contento. Ma poiché io non lo era 

– Torni domani – aggiunse – che di più parlar le farò dono.

E io l’indomani davvero tornai, perché sebbene non fossi ansioso di conoscere il verbo di Pastapane, avevo trascorso una orribil notte, funestata dalla sopraessenzïal forma d’ogni ente, il re del fato, l’ineffabile amore amante amato, sol da sé incomprensibile compreso, che fuor de l’esser suo linee non stende, e altri svariati pezzi mozzi – sette, parmi – di sonetti del Lubrano, che mia sorella si ostina a recitarmi al telefono: Sonetto Trentotto: Non v’ha grande che morto non capisca in sette palmi di terra. Fortunatamente venne presto il giorno, e col giorno la terza seduta medica, di carattere meramente tecnico e organizzativo, in cui Pastapane mise in chiaro i suoi propositi: 

– Chiarissimo paziente, il vederla ancor qui m’induce a conchiudere la sua ormai completa adesione alla mia teoria: oltre a compiacermi di ciò, la invito pertanto a ripercorrere con me i punti salienti della nostra missione, o curagione discenditiva. Ripeta con me: prima arginiamo le parole oziose e le intrappoliamo – e fin qui ci siamo – poi le precipitiamo, le vagliamo e le interpretiamo e infine le abbattiamo. Ora, quel che io chiamo alchemicamente precipitare altro non è che quel che l’Eriugena chiamava coagulare, ovver l’operazione che di concetti astratti ci reca cose materiate. E per esser ancor più chiaro le spiegherò come ciò avverrà in concreto: io le reciterò, terzina dopo terzina, tutti versi finti di quella sua Comedia, e lei, terzina dopo terzina, me li ricondurrà a fatti veri della sua vita, oggetti solidi o persone esistenti. Per esempio, quando io le dirò Ruppemi l’alto sonno ne la testa / un greve truono, sì ch’io mi riscossi / come persona ch’è per forza desta lei mi risponderà: l’insonnia, e così via. Al termine avremo raccolto quattromilasettecentoundici tra oggetti ed episodi. Questo per cominciare; poi elimineremo quelli ridondanti, o marginali, o comunque non pertinenti e analizzeremo nel dettaglio i rimanenti, dei quali non ci riuscirà difficile, immagino, riconoscere il denominatore comune, il fattore di coesione, il perno su cui si regge la sua costruzione patologica. È questo che, una volta riconosciuto, dobbiam distruggere.

– Ci vorrà molto?

Ad una media di sette terzine al giorno, distribuite su cinque giorni alla settimana, per circa quattro settimane al mese, come aveva inizialmente progettato il medico, ci sarebbero voluti circa trentatre mesi e mezzo, cioè due anni e nove mesi solo per la raccolta dei dati, il che parve ad entrambi francamente eccessivo. Fu Pastapane a proporre di restringere l’analisi alle sole millecinquecentosesantatre terzine dell’Inferno, sulle quale si offrì di operare una ulteriore scrematura, escludendo sin da subito quelle più apertamente inservibili. ­

– Non apporteremo alcun danno alla procedura considerando il solo Inferno, anzi, esso Inferno discende, proprio come la nostra curagione, e come la nostra curagione si restrigne, ed appoggia sul malo perno, per modo che l’analogia ci sarà di ulterior ausilio. Neppur ci nocerà ignorare i dati marginali, ovver i versi di transizione, i polemici e politici, geografici e geologici, onomastici e onomatopeici – disse, e lo disse quasi scusandosi. Suggerì anche di aumentare da sette a ventisette il numero di terzine da considerare ad ogni visita, cosicché per le poco più di millequattrocento rimasteci dopo la revisione ci sarebbero occorse appena undici settimane, cioè nemmeno tre mesi. A ciò va ovviamente aggiunto il tempo necessario al trattamento dei dati, di cui riferirò a suo luogo, limitandomi per il momento a descrivere brevemente lo stato di cose al termine dei quattro mesi e mezzo che di fatto furono necessari alla prima fase del progetto.

Premesso che tale fase preliminare di indagine non ebbe effetto alcuno sull’insonnia, come infatti non doveva, almeno a detta del medico, il quadro eziologico che ne traemmo risultò a dir vero inaspettatamente interessante, ed a suo modo istruttivo. Tralasciando infatti la grossa parte delle terzine che non suscitò in me reazione veruna, e la parte non piccola che evocò episodi da classificarsi come assolutamente insignificanti, rimanemmo con ben poca roba. Roba soda, però, almeno a detta del medico, e devo ammettere che anche ai miei occhi il disegno che si venne a delineare non solo appariva dotato di senso, ma sembrava raggiarlo, il senso, da un unico central centro, perfettamente riconoscibile, e a me ben noto. Davvero quel dissennato di Pastapane aveva trovato la ragione di tanto patire? Di certo mi aveva dato motivo di ben poco dormire la notte precedente l’inizio effettivo della curagione, notte ch’io passai intera in temer e attender la sveglia, ch’egli mi fece puntare al principio del mattino, onde presto cominciar la seduta e presto finirla, prima dell’assalto della turba grama dei mutuati. Ora, io non posso soffrire la sveglia. E non l’oggetto in sé, e neppure il nome, o ‘l suono, ma l’imminenza posticipante di ch’essa pesa sul mio riposo, e lo stiaccia, e senza alcun rattento schianta, abbatte e porta via. E andatosene il sonno, natura manda i nomi, che tosto empian l’abborrito vacuo con lor vaneggi e con lor lazzi; e questi sempre, avanti il dì di sveglia, son più malvagi. Arrivò infatti il gatto padule, che quella notte volea palindromarsi, ma tanto brutto è quel che ne sortia, che qui non dico. “Oilà sei tu, arcangelo col ciclo? Col ciclo, co’ legna, crauti e salio!” Anche l’arcangelo palindromavasi, ma esso con più garbo. Lo ignorai: lui, la bici, i legni e i crauti, ma il salio sette salmi salmeggiava, e saltellava, s’alterava e m’alterava, e m’altercava, s’alzava e s’assettava. Infine s’insettò (stanotte sette salî), e così multiplicato si stette, ed io con lui il novo giorno attesi.

 

            – E come quei che con lena affannata / uscito fuor del pelago a la riva / si volge a l’acqua perigliosa e guata ­– Qui eravamo in campagna, nella piscina di gomma, mia sorella cercava di annegarmi per finta. 

– Ma tu perché ritorni a tanta noia? / perché non sali il dilettoso monte / ch’è principio e cagion di tutta gioia? – Qui invece eravamo in montagna. Vede, dottore, d’estate andavamo in montagna e ci si dilettava in lunghe nojosissime passeggiate alpestri. Per vincere la mia ritrosia all’alpicazione, ed in virtù di una mia al contrario spiccatissima inclinazione alla merenda, mia madre, che partecipava alle spedizioni in qualità di vivandiera, approntava locupletissimi panini di uovo sodo e majonese. Siffatti panini venivano però distribuiti alla truppa solo in ben precisi punti geografici, inderogabilmente stabiliti da mio padre in base a complicati calcoli di medie pesate di dislivello, ora del giorno e della stagione, colla precisione del geometra e coll’ausilio della carta militare. Fors’anche per la presenza molesta di mia sorella, non arrivai mai a comprender la gioia del monte, se non nel suo farsi luogo di sosta: Ma qui m’attendi, e lo spirito lasso / conforta e ciba di speranza buona, / ch’i’ non ti lascerò nel mondo basso.

C’è da aggiungere che questo non fu l’unico ricordo che rimandasse alla vacanza montana: sebbene appalesatisi all’altezza del terzo e tredicesimo canto sono infatti da ritenersi anche notevoli i seguenti due fatti, l’uno spaventevole, l’altro lieto. Il primo concerne certi vermini irsuti, ovver larve di lepidotteri defogliatori (forse Hyphantria cunea?), a me noti col nome terrifico di gatte pelose, frequentatori degli erboni alpestri e massime delle ortiche, che di giorno l’occhio vedeva e di notte il pensiero sognava, e l’occhio sognando rivedeva: Elle rigavan lor di sangue il volto, / che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi / da fastidiosi vermi era ricolto. L’episodio lieto concerne invece tale giuoco di bambini, che ho poi scoperto esser sperienza assai generale ed ampiamente descritta in letteratura, ma che mi era allora ignota e di cui attribuii pertanto l’invenzione al bambino Sebastiano, che per primo me ne fece partecipe, e cui si deve sicuramente la paternità del nome giochino miralanza, mai da me rinvenuto nelle fonti alternative. Consisteva il passatempo, cui dedicavamo quasi tutti i giorni quasi tutta la sera (quando riuscivamo a liberarci della presenza fastidiosa delle nostre rispettive sorelle maggiori, la sua curiosamente Serena al nome, ma all’atto petulante), nel roteare vorticosamente un tizzo lungo e stretto, infocato ad una delle estremità ed impugnato da quell’altra, acciocché con punta di bragia facesse rotando sue figure in suso: Come d’un stizzo verde ch’arso sia / da l’un de’capi, che da l’altro geme / e cigola per vento che va via. Il nesso è debile, ma questo mi sovvenne, per confusione forse di udito e di guardato.

– E qual è quei che disvuol ciò che volle / e per novi pensier cangia proposta, / sì che dal cominciar tutto si tolle – Mi è familiare molto, questo passo, lo prenderò a scusa per narrarle brevemente la storia della mia infanzia, di molti dubbî e di poche parole. Ero bimbo rotondo, di gran morbidezza di polpe e mansuetudine d’animo. Amavo star lunga tratta intento in pensieri che ora non ricordo, ma belli, che però nel cercar di comunicare altrui, sempre mi confondevo. Né era confusione del dire solo, perché nel dirli s’inforsavano anco i pensieri, e io ne ricavavo incertezza grande, e indecisione e dubbio. E nel dubbio preferivo tacere. “Questo bambino parla poco” – dicevano, e taluno errando pensava non avessi niente da dire, o avessi danno e tara, ad impedir l’effato, ma eran genti di assai scarso potere penetrativo della psiche di infanti, come tutti i molti che restavano indifferenti al mio tacere. Non così la mamma e il babbo, discreti decifratori dei miei silenzi e pregrammaticali costrutti, e la molesta sorella cui la mia penuria del dire facea montar la stizza, onde percoteami di divariato oggetto che le venia alle mani: piano sempre, ma con pertinacia. Va da sé che ciò inaspriva la mia reticenza all’espressione vocale: Allor con li occhi vergognosi e bassi, / temendo no ‘l mio dir li fosse grave, / infino al fiume del parlar mi trassi, e resterebbe così solo da localizzare il fiume.

– Diverse lingue, orribili favelle, / parole di dolore, accenti d’ira, / voci alte e fioche, e suon di man con elle – Questa è facile, è la sala d’aspetto.

– Io non posso ritrar di tutti a pieno, / però che sì mi caccia il lungo tema, / che molte volte al fatto il dir vien meno. – Le dicevo della mia difficoltà a parlare, va detto che ancor più restio divenni allo scrivere, quando di scrivere mi fu richiesto. Rammento in particolare un pomeriggio d’autunno, parsomi per lunghezza più prossimo all’anno siderale, che intero spesi nel tentativo di svolgere il compito per casa: Tema: Descrivi una castagna. “Castagna: Frutto del castagno, costituito da uno o più ovarii arrotondati e bislunghi, per lo più convessi da una parte e piani dall’altra, sormontati ciascuno da uno stilo persistente moltifido e segnati alla base da una larga cicatrice, per cui si fanno aderenti ad un invoglio particolare tutto irto di spine, che alla maturità si apre in quattro valve e lascia cadere, non i semi, come ordinariamente si crede, ma i frutti. La pelle esterna liscia, coriacea, di color bruno rossiccio, appartiene al frutto: la pelle interna membranosa e d’un rosso di mattone è propria del seme, formato di due grossi cotiledoni farinosi che costituiscono la parte alimentare. Le Castagne diconsi Caldarroste, Bruciate, quando furono arrostite; Caldallesse Succiole o Baloge, quando furono lessate.” Questo è quel che dice il Tommaseo. Analoga è la definizione del Battaglia, forse solo un poco più concisa, con il difetto però di contenere un fastidioso errore di grammatica. Lo so perché vado sempre a cercare Castagna sui dizionari –  e io i dizionari li amo, dottore, li amo sopra ogni cosa ­– per il piacere di vedere come altri avrebbero portato a termine il compito, a me allora parso così gravoso, e del cui esito, se esito ci fu, ho invero perso memoria. Rammento solo gl’interminati spazi bianchi ch’eran davanti e i sovrumani silenzi ch’avea dentro, e la stasi totale, la piatta calma, il nulla, fin che non appare mia sorella, e il silenzio si fa urlo: che almeno lei mi aiuti, lei che i suoi temi la maestra li legge a voce alta nelle altre classi, intormentendo le orecchie innocenti dei bimbi biondi, lei che parla sempre a sproposito, ma pur parla, e scrive altrettanto a sproposito, ma pur scrive: – Dimmi, sorella! – dico, e la sorella dice: – È facile, la castagna: la castagna è il frutto del castagno, costituito da uno o più ovarii arrotondati e bislunghi, per lo più convessi… – Basta! – dico – Basta! Sorella garrula, ti cheta! – dico, ma un po’ come colui che piange, dico. 

– Or mi vien dietro, e guarda che non metti, / ancor, li piedi ne la rena arsiccia; / ma sempre al bosco tien li piedi stretti. – Qui siamo a fatti più recenti. Deve sapere che ho un cognato, un uomo d’indole loica, d’intelletto e presunzion soverchi, nell’apparenza permaloso, inospitale, facile all’ira, e nell’atto acerbo. In coppia con la moglie, ovver con mia sorella, fanno un duo di cinici romiti, dediti a solitari studi, all’orto e al bosco. Orrendamente ostili all’uomo in generale, amano però essi di amore grandissimo taluni pochissimi lor simili, tra i quali abbiam la fortuna di annoverarci noi rispettivi fratelli, dell’uno e dell’altra. Forse per mancanza di esercizio, si manifesta tuttavia l’amore in forme quanto mai curiose, e l’una è quella di chiamarmi a loro, per vacanza campestre, indi poi continovatamente angariarmi, lui, per tali mie mancanze o errori, e lei che sempre fu con me loquace troppo, allor tacersi, consentendo allo strapazzo. Son gli errori più gravi, nell’ordine: primo: portare in casa (casa piena di mota e ragni e scarpioni) la rena di sotto le scarpe; secondo: produr briciola nel maneggiare il pane o altro prodotto da forno friabile e recarla a terra, peggio se dopo esservici cosparso il petto; terzo: far goccia nel versar l’olio; quarto: tirare lo sciacquone a sproposito. Quest’ultimo fatto non mi concerne, e che io sappia si è prodotto una sola volta, ad opera di un amico di gioventù della sorella, che dopo lo spiacevole episodio non ho più invero sentito nominare. Quanto invece all’olio, che il malvagio si fa recare di Toscana, esso vien porto all’ospite in un’ampolla, a insindacabile giudizio del cognato meglio d’ogni altra forma di vasello atta al versare, anche se ciò io non credo. A parte me e i pochi altri prescelti che ho detto, l’ospite occasionale non sa di esser osservato nell’atto del versare: se fa goccia non sarà più ospitato, ed invano se ne domanderà il perché. Di solito però io verso correttamente, e di ciò son lodato. Anche la sabbia in casa la introduco ormai con parsimonia, specie da quando i due non abitano più al mare ma in una montagna sassosa, di dove al più potrei recar macigno, e di ciò mi avvederei. Restano le briciole.

– E però leva sù: vinci l’ambascia / con l’animo che vince ogne battaglia, / se col suo grave corpo non s’accascia. – Il curioso accostamento del corpo che non s’accascia, in ciò simile a quello della mongolfiera, e della favella ch’è sprone alla vittoria, mi fa sovvenir del gioco della pallacanestro. All’età di tredici anni o poco meno, mia figura cangiossi, per repentina trasformazione isovolumica, e di ritonda fecesi allungata molto, com’Archimede dimostra della sfera e del cilindro. Prestai allor per anni mio agil lungo malleolo a molte squadre, nostrali e istrane, e sempre la squadra era accompagnata da femminil tifoseria. E questa tifoseria era quasi tutta di madri, sempre con lor figli rotanti onde son vaghe, ovver sempre tra le palle. Va detto che lor presenza non arrecava eccessivo disturbo al giuoco, poche essendo le madri rissose, e ancor meno quelle apertamente dannose, che bestemmiavan l’arbitri e lor parenti. Per la più parte erano infatti tranquille signore di mezza età e di buona famiglia, tra le quali rammento la composta moglie di tale avvocato, che una volta sola, in corso di azione concitata, alzossi di suo scanno e a noi rivolta con voce solo poco più alterata del normale, così incoraggiavaci alla vittoria: “Siete pieni di gas!”. Nessuno di noi, neppur il figlio, ha mai compreso cosa con ciò volesse intendere: Queste parole di colore oscuro / vid’io scritte al sommo d’una porta / per ch’io: Maestro, il senso lor m’è duro.

– Poscia vid’io mille visi cagnazzi / fatti per freddo; onde mi vien riprezzo, / e verrà sempre, de’ gelati guazzi. – Io non sopporto i gelati sciolti, Pastapane, e sa perché? Perché da piccolo mi son trovato costretto ad assumerne a decine, di gelati sciolti. E quel ch’è peggio è che non altri da me medesimo, per quanto ammaestrato dalla mia sorella, mi costringeva a ciò, per via di giuoco. Va detto che l’ingestione del gelato guazzo non era scopo del giuoco, ma carattere accidentale, tuttoché conseguenza necessaria, del medesimo. Consisteva infatti il giuoco nel fare a gara a chi finiva dopo di mangiare, in questo caso il gelato ma più in generale ogni sorta di vivanda. Dell’altre non ho tuttavia memoria così viva, perché credo di poter affermare con certezza che di nessuna vivanda come del gelato la manducazione dilazionata è spiacevole, specie se il gelato è contenuto nella coppetta di cartone, e se, trattandosi di prodotto confezionato, essa stava, col suo contenuto, nel congelatore. In quest’ultimo caso, infatti, non soltanto il cartone si squaglia, ma il processo degenerativo della cellulosa risulta più veloce di quello del gelato, a causa credo del repentino sbalzo di temperatura che la coppetta, e le di questa commessure incollate con colla oltremodo sgradevole al gusto, hanno subito all’atto di estrazione dal frigo. Anche attinente al medesimo giuoco, e anche brutto, sebbene meno persistente, è il ricordo degli gnocchi alla bava, che mia madre preparava ogni sabato e che io e mia sorella iniziavamo ad assumere in forma di gnocco morbido nel formaggio filante caldo e terminavamo in figura di gnocco duro come il sasso incastonato nel formaggio gommoso ghiaccio. La mamma doleasi di ciò.

            – Ond’elli a me: “Perché tu mi dischiomi, / né ti dirò ch’io sia, né mosterrolti, / se mille fiate in sul capo mi tomi”. – Forse non c’entra molto, dottore, ma mi sovvien di quando tomai sul capo la sorella. Eravam mediamente piccoli, faccia sui sei-otto anni, sei io, otto lei e ci trovavamo in casa da soli in compagnia della cugina, coetanea e compagna di stupidi giochi della sorella. Decidemmo quel pomeriggio di giocare al dentista (la cugina provava inusitato amore per i dentisti): io facevo il dentista, la cugina l’infermiera del dentista, la sorella il paziente del dentista. La sorella doveva sottoporsi a delicato intervento di estrazione, curagione di svariate carie e pulizia dentaria, e perciò necessitava di durevole anestesia, che io e la cugina stabilimmo somministrarle, per finta, sotto forma di potente randellata nel capo (onde cessar le sue opere biece / sotto la mazza d’Ercule, che forse / gliene diè cento, e non sentì le diece). Ci munimmo all’uopo di una delle gambe di ferro vuote didentro che arreggevano il mio calciobalilla e mentre la cugina teneva ferma la sorella, io per davvero la colpii: non forte, ché doveva esser per finta, ma neppur piano. La sorella si stette, e io e la cugina rompemmo in pianto, pensando averla uccisa, e ciò dispiacevaci molto. Ci pareva però la tragedia comica, cosicché nel piangere anche ridevamo, e la sorella intanto ridesta per questa ilarità ferocemente ci ingiuriava, e noi: “S’ella c’ingiuria – pensammo – allor non fue danneggiata troppo” e senza meno posammo ogni tristizia, fortissimo ridemmo, e ancor oggi ci rallegriam del gesto.

 

Questa è in epitome l’esposizione del puro dato come ci si presentò dopo l’ultima seduta di raccolta e vaglio dei fatti. Quanto all’interpretazione, ovver scioglimento, sebbene entrambi non avessimo più dubbi Pastapane preferì rimandare riconoscimento e isolamento del dato malvagio ad una seduta successiva, vale a dire la ventitreesima se contiamo anche quella per metà occupata dalle questioni reumatologiche.

Non so se più sfiancato dal lavoro di scavo o più gravato dal peso di ciò che n’era sortito, sta di fatto che quell’ultima notte di attesa il sonno venne facile. Invece del gatto, infatti, sentii appropinquarsi il cane a righe ridevole della televisione svizzera: senza nome, ma pur pieno di tinte colorate a strisce, lo sentivo picchiare alla porta, e quasi gli aprivo quando m’avvidi ch’aveva seco la sorella, non la sua, la mia, ed essa apostrofavami con voce chioccia:

            – To’ ‘l frale fratello ch’anagramma poco, lo fa di fretta e però anche male. Forse di nuovo trastullati con tue oziose geometrie? O empieti il capo tua calculazion ottusa? Usai, e ti lodai per questo, alte ghiaie e latrine, atri laghi e laide dita, draghi e Arghi, e artigli e ringhi, ma l’aìre dei tanghi, fratello, l’aìre dei tanghi… 

            E continuava, la sua orazion non picciola, e allora mi dispiacque pel cane colorato, ma la porta no, la porta io non gliel’ apersi, e cortesia fu lui esser villano. Al solo pensarlo, però, sopravvennero i Genovesi, Ah Genovesi, uomini diversid’ogne costume e pien d’ogne magagna e in pochi minuti già dormivo, e in pochi minuti ancora venne il giorno, e col giorno la seduta risolutiva, introdotta da un Pastapane festevole.

– Paziente mio – disse – ora ti sconcerto: ­tu m’hai risposto con parole brievi, ma io ch’intendo il tuo parlar coverto, dirotti quel che pensi, e quel che devi.

            Nell’entusiasmo era inavvertitamente passato al tu, oltre che all’endecasillabo, ma subito si ricompose. 

            – La situazione è lampante, caro il mio paziente, sarà d’accordo con me che anche un idiota saprebbe riconoscere nel quadro che lei ha delineato un elemento focale, che cristallizza in sé tutto il senso della storia, e ne contiene insieme la causa e la spiegazione. Come potevamo immaginare sin da subito, questo elemento, che denomineremo per comodità “la nemica”, ha a che fare in modo diretto con il suo blocco linguistico infantile, di cui direi anzi che è quasi simbolo e metafora, e dunque ha a che fare anche, sebbene in modo indiretto, con la sua attuale opulenza terminologica, che è poi null’altro che una reazione alla penuria di cui sopra. Mi segue?

            – Perfettamente, dottore, anche se ho timore di sapere come continuerà.

            – Timore? E perché mai, mio fido paziente? Gioia, non timore vorrei legger sul suo volto, ché stiamo per uscir dalle tenebre: abbiamo arginato e abbiamo aggiogato, poi abbiamo coagulato e precipitato, e poi abbiamo riconosciuto e isolato la nemica: non ci resta che distruggerla. Me la porti in istudio domani, che la elimino.

            – Ma dottore, crede davvero di potercela fare?

            – Fa parte anche questo del mestiere, non crede?

            – Sì, ma soffrirà?

            – Soffrire è una parola grossa, forse patirà, per quanto è dato di patire a una creatura di tal fatta. Ma non ci pensi, pensi al giovamento che ne trarrà lei. E se proprio ha bisogno di trovar conferma alla nobiltà del gesto che andiamo a compiere, le dirò che lei non è l’unico ad aver notato la dannosità della sua nemica, che già Galeno indicava come malvagia, sebbene non pessima tra le …  

            – Galeno parlava di mia sorella!? 

            – … tra le frutta a succo grasso … Ma cosa c’entra ora sua sorella? Andiamo, non divaghi, mi segua piuttosto, che siamo alla fine. Nel De probis pravisque alimentorum succis, le dicevo, Galeno sostiene che la castagna sia astringente, abbia difficile concozione e perciò procuri flatulenza, sebbene sia da ritenersi tra i frutti di tipo ghianda la meno dannosa. Anche il Mattioli, rendendo in latina favella il Diascoride a lei ben noto, conferma il dato, aggiungendo alle conseguenze di un’eccessiva ingestione forti dolori di capo. Questo per quel che concerne il piano puramente materiale, ma se passiamo al metaforico, lei non ha idea di che abissi di male ci si aprano. Le dirò infatti che non è casuale che lei si sia bloccato proprio allor che fue richiesto, e così giovane ancora, di dissertar della castagna, e che per conseguente non è naturale ma naturalissimo che intorno ad essa castagna si sia incrostato tutto il suo malessere linguistico. Tanto per cominciare la castagna è ambigua: nel libro diciassette, capitolo sette, Isidoro di Siviglia sostiene ch’essa debba il suo nome alla simiglianza tra l’atto di estrazione dei frutti, solitamente due, che stanno gemelli nel riccio e l’atto di castrazione. E anche si dice castrare le castagne per indicare l’operazione del fenderle prima di arrostarle, onde non iscoppino. Tutto all’opposto, il Boccaccio e altri con lui usano il termine castagna per indicare gli organi femminili. Roba che scotta, caro il mio paziente, certi medici parassiti che so io avrebbero di che trarne volume, ma noi invece no. Noi non ci inoltreremo oltre nella teoria, che già le dissi mi nuoce, ma passeremo all’azione: abbiam fatto col senno assai, or darem di spada, anzi di martella.

Così Pastapane, o almeno credo, ma non ne son certo, ché per la delusione mi prese come un gran sonno, e dopo il buono accoglitor del quale, Diascoride dico, io vidi Orfeo, Tulïo e Lino e Seneca morale, Euclide geometra e Tolomeo, e poi forse per assonanza, forse per sonnolenza, invece di Ippocrate apparve Irneo, che essendo buon compagno nel resto e senza pecche, distruggitor de le castagne secche, tosto mi gettò nel ventinovesimo leporeambo trimetro trisono endecasillabo satirico, ch’ha voce gaia di ghiandaia o verro, che mangia l’erba acerba, il mio glisirro, senz’oglio e sal, ché pate mal di scirro, che frange le castagne arroste in ferro. 

 

 

 

venerdì 11 settembre 2020

Orizzontali 2



Basso Ostinato: dialogo del Comandante e del suo nuovo valletto di stalla

 

Dicesi patùs il tritume di paglia o di altre festuche, e in senso più esteso la stramaglia per fare il letto al bestiame nelle stalle. Dicesi altresì fojêt (fuejàm, frindéi) il fogliame da analogamente stendere sotto il bestiame (stierni sot i nimâj).L’identità d’uso non giustifica confusione di termini.

– Non avrebbe qualcosa da farmi fare?

– Le andrebbe bene rastrellare (tirâ donğhie) il fogliame, massime di faggio, dai prati, spesso in discesa, onde impedire che resti nel fieno, ché le bovine non gradiscono?

– Penso di sì

– Occorre farlo in questa stagione. Finita la neve e non ancora alta, anzi ben bassa l’erba e prima che la terra troppo si sofficisca. Anzi è già tardi. Non occorre che porti il rastrello.

– Va bene domattina?

– Va bene domattina.

– Suona passando? (o passa suonando?)

– Suono passando.

In Carnia e sulla destra del Tagliamento dicesi ğiocul il capretto che non abbia compiuto l’anno di età. Dicesi invece ovunque čiondar il vuoto, o cavo, specie dell’albero.

– Le famiglie prendevano nome da un carattere fisico, o da un fatto notevole. Per quelli del čiondar si è trattato di una donna, già altrimenti e più tranquillamente madre, cui toccaron le doglie nell’andare a far fieno, in giornata di assai caldo. Sgravatasi lungo il cammino, si dice abbia collocato il recente pargolo in un cavo d’albero, all’ombra e a parziale riparo, per recuperarlo con più comodo al ritorno.

– Ciò è vero?

– Non è detto che ciò sia necessariamente vero. Presumibilmente ha anzi del falso, ma il semplice fatto che la vicenda fosse credibile diviene segno della sua verisimiglianza. Non trova?

– Trovo. Del resto dice qualcosa di molto simile anche Aristotele, mi pare nella Poetica.

– Anche per quelli dell’ors abbiamo da supporre un’espansione verosimilmente enfatica su di un nucleo di verità. Gli ors erano di Poggessa. Quando il trisnonno è venuto ad insediarsi qui, siamo a metà Ottocento, ci ha trovato l’orso; il che non essendo particolarmente inusuale per l’epoca, pare che il vecchio non trovasse nulla da obiettare ad una convivenza pacifica, da condursi nei termini di un reciproco, tacito, rispetto. Ora, l’orso in genere essendo animale di modi non propriamente cortesi, e quell’orso in ispecie avendo preso gusto soverchio nel trafugare al trisavolo svariate sorte di bestie, da cortile e no, pare il trisavolo abbia avuto agio di rivedere le proprie iniziali posizioni e in un momento di stizza abbia assalito l’animale, e distruttolo, con il solo aiuto di un’ascia e del cane.

– Pensi che io credevo che ors stesse ad indicare il carattere schivo ed eventualmente poco cordiale dei componenti la famiglia.

– Il che pure non è falso: e sia detto che valianci di siffatta anfibolia semantica per dissuader il villico dalla visita importuna.

Con la forma verbale intransitiva filosofâ suole primariamente indicarsi l’esercizio del mestiere di filosofo (filòsof). Per traslato, denominasi filòsof anche chi la filosofia (filosofìe) non l’abbia a mestiere ma solamente a proprio personal trastulloIn ambiente rurestre, nelle osterie e in taluni opifici il termine è inteso in un’accezione alquanto spregiativa.Timp, tempo, indica indifferentemente il tempo atmosferico e quello cronologico

– Sempre mi fu a cura lo studio della filosofia, massime in tempo di pioggia, che son i giorni in che mi resto dalla fatica. La mia amica del bar, là di Groud, per portarle un esempio, parendomi di intravedere in lei una certa inclinazione per la materia, l’anno addietro le feci dono dell’Abbagnano

– Tutto!?

– Mi par tutto: cos’erano, tredici volumi? Dapprima avendole già fatto impresto di tal operucola di Russell, roba non troppo soda (robis di fèminis), e avendo essa gradito, anche le proposi Aut Aut di Kierkegaard. Forse troppo tecnico, però: non ne parlammo oltre.

– Anche a me è distante certo recente filosofare: preferisco senza dubbio addarmi alla macchinazione d’Aristotile. Quando non attendo all’orto – che tra parentesi quest’anno, con quei due cubi di letame che mi ha portato e che son stati spanti con una certa abbondanza, mi aspetto una miglior riuscita di quella disastrosa dell’anno passato – quando non attendo all’orto, dicevo, e non son qui con lei a rastrellare, allora lavoro a una cosa. Una cosa sul tempo…

– Il tempo chronos, o quello atmosferico?! Ah Ah… Non per non metter pregio al suo lavoro… Io ad ogni buon conto preferisco Marcuse. E a proposito di orto, i pali dei fagioli li ho visti: non vanno bene, quei suoi pali sono corti, e di sezione alquanto miseri.

Bevànde, bevanda, secondo il vocabolario si usa in contrapposto di vino schietto o d’altro liquore spiritoso. Individui sparsi utilizzano autonomamente il termine per indicare precisamente il contrario, specie nella locuzione dèdit a la bevànde, eufemismo per ubbriacone.

            – Già qui?

            – Stavo sperimentando la mia quasi totale inutilità; è frustrante. Non avevo mai rastrellato prati montani in discesa, lei mi mette soggezione. Sua madre mi mette soggezione. Sua madre portava un peso paragonabile al suo, di lei sua madre, nel gerlo nella neve in salita in inverno, nel sole in salita in estate. In salita sempre.

            – Mia madre aveva due figli soli. L’Amelia ne aveva otto, e un marito dedito alla bevanda. Faceva tutto lei, anche le legna con la scure. In salita sempre.

            – Non ho mai fatto legna.

            – Non le chiederò certo di venire a far legna. Se proprio vuole, una sera viene ad aiutarmi nella stalla, così conosce le bovine. La sera è meglio, la mattina comincio alle quattro e mezza.

            – Già, la sera è meglio. Ma perché le chiama bovine?

            – Perché vacche non è esaustivo, le manze non sono vacche. Se uno ha manze e vacche non può chiamarle vacche.

            – Lei ha manze?

            – No, solo vacche. 

Dicesi vačhie la vacca, intesa come bovide adulto di genere femminile che abbia già partorito almeno una volta. Prima del primo parto la vacca è denominata mange, o mangete, ovver manza, e la dicotomia vacca-manza, intesa come suddivisione dell’insieme bovina adulta, genera una partizione. La detta suddivisione è infatti esaustiva (l’unione dell’insieme vacca e dell’insieme manza è l’insieme bovina adulta) ed esclusiva (l’intersezione dell’insieme vacca e dell’insieme manza è l’insieme vuoto). L’evento primo parto può esser pertanto inteso come discrimine ontologico tra l’ente vacca e l’ente manza.

            – Ho un problema filosofico, sulla questione delle vacche e delle manze. Lei mi diceva che vacca è la manza che abbia partorito almeno una volta.

            – Precisamente.

            – Dunque prima del primo parto ho una manza, dopo il primo parto ho una vacca.

            – Se vuole.

            – Quindi potrei considerare la vacca e la manza come due stati contrari della bovina, e far coincidere i processo di generazione della vacca con quello del vitello, leggendo il divenire in senso assoluto del vitello dal non vitello come divenire in senso qualitativo della vacca dalla non vacca, cioè dalla manza?

            – Se le fa piacere. Non vedo tuttavia l’utilità pratica della sua interpretazione. Quel che preme, e le parlo da contadino, non è tanto il problema ontologico del divenire della vacca, e dunque del primo parto come mutamento, quanto piuttosto il problema pratico di porre un discrimine, preferibilmente puntuale, tra le nozioni di manza e vacca, intese più che altro in senso economico. A che scopo, secondo lei, si distingue una vacca da una manza?

            – A scopo classificatorio?

            – No crodis (non credo). A scopo di monetizzazione: la vacca vale di più, la manza di meno. Al commerciante non preme di sapere se quella che sta partorendo la prima volta è una vacca o una manza: sempre potrà aggirare il problema tralasciando di venderla, o di acquistarla, in quella mezz’ora. Ma poniamo pure che a lei importi di saperlo. Io le dico allora, contro il mio interesse, che quella che sta partorendo la prima volta è senza dubbio una manza.

            – Dunque lei tende a collocare la transizione manza-vacca al termine del compimento del parto, diciamo con l’estrusione del vitello?

            – Già, così poi lei mi dice che l’estrusione del vitello è un processo e non un evento puntuale, e andiamo avanti all’infinito. Facciamo invece che la transizione avvenga all’atto della separazione materiale del vitello dalla madre, quando si recide il cordone ombelicale, così chiudiamo la questione, visto che l’atto di divisione, che è puntuale, ci consente di leggere la transizione manza-vacca in termini di generazione senza processo: come l’atto di divisione della retta genera di un punto due, e spero non vorrà negarmi questa esser generazione senza processo, così l’atto di recisione del cordone genera di una manza una vacca. O se preferisce ancora, genera di una bovina due: l’una manza, l’altra vacca.

Dicesi patafebancs il baciapile, da patafâ (schiaffeggiare, calpestare, e per traslato scaldare) e banc (banco). Termine spregiativoPer consueto, specie nel contesto della tradizione agro-trotskista, i patafebancs sono ritenuti brute int (brutta gente).

            – La condizione di comunista, comunista e anticlericale, ritengo sia comune, quasi connaturata a certe nature, massimamente solitarie, originarie di luoghi solitamente impervi, ed ivi residenti. Uno dei fratelli di mio nonno, nipote perciò di mio trisnonno, quel dell’orso, era solito fuggire il prete, quando questi avea l’ardire di peregrinarsi insino al luogo impervio, a benedirvi casa e stalla. Per suo, il prete era solito fuggire lo sterco bovino: quando si naufragava appunto insino alla casa, e di qui alla stalla, il suo santo piede indugiava sulla soglia, laddove nell’intera persona soffermatosi, sospettamente sporgendosi, soffertamente scoteva quel suo spruzzolo, in prece al cielo contra il bovino morbo, il danno, il foco, il fungo, la ruina e ‘l crudo scempio. Anche quel mio altro parente filosofo che le dicevo, pure nipote del trisnonno dell’orso, pure era comunista e anticlericale. E pure stavasi in consuetudine col prete, per mezze giornate intere intrattenendocisi, in quelle soventi mezze giornate che i preti non sanno che fare. Lei ha mai avuto agio di sperimentare gli esiti di un colpo di tosse sull’evacuazione bovina (le faccio notare che qui la distinzione logico-ontologica vacca-manza è del tutto ininfluente)? È per questo che le pareti della stalla – l’ha osservata? – sono ricoperte di sterco. I preti non amano ciò.

            – E il trisnonno dell’orso?

            – In che senso?

            – Nel senso della fede.

            – Ebbe pagana la cuna. Donde la discendenza: grandissimi lavoratori della terra ed altrettali bestemmiatori dei cieli.

            – Non credo che le due cose vadano disgiunte, e in ogni modo ciò tradisce un certo qual sentimento del divino.

            – Può essere, ma diverso è sentire il divino, diverso è sentire la messa. Quelli non bestemmiavano il dio dei preti e dei patafebancs (brute int), ignoravano il sacrificio teandrico della croce, al più bestemmiavano il dio della grandine e dei temporali: conosce? Quello che manda tre giorni di pioggia sul fieno appena segato: conosce? Pare tuttavia che in avvicinarsi la morte più d’uno patì postrema conversione: una quindicina di orazioni in cambio di qualche decina d’anni di bestemmie, e in ogni modo poi son morti: brutto segno il ravvedimento: qualora dovesse vedermi così, insomma, si metta l’animo in sospettazione.

Con il verbo balinâ suole indicarsi primariamente l’atto del pigiare coi piedi un terreno vangato di fresco, lasciandovi le impronte. Più in generale, balina chi va e viene, chi si muove con irrequietudine, chi gira, anche eventualmente a vuoto.

– Ieri le ho preparato i pali per i fagioli. Ne avevo fatti sedici, poi ho pensato che avrebbe gradito averne in numero primo, così sono tornato fuori e ne ho fatto ancora uno. Già imbruniva.

– Diciassette sono meglio. Comunque sedici era una potenza di due.

– Fa ancora il matematico?

– Ho smesso. Mio fratello fa ancora il matematico, però fa anche i palindromi. Insieme facciamo gli anagrammi. Centinaia, migliaia di anagrammi… entriamo in risonanza e cominciamo a girare a vuoto. Una seduta compositiva può durare anche più giorni.

– E poi?

– Poi basta. Una volta abbiamo fatto anche delle giostrine di animaletti di creta colorata, sa quelle che s’usano appender al soffitto, o dansi in giuoco ai bambini.

– Ma lei odia i bambini, mi dicono.

– Mi sono alquanto indifferenti, da lontano. Da vicino m’affastidiano non poco: i bambini urlano, mandano in rottume gli oggetti, si cacano addosso, crescono e son da annoverarsi tra quelle occupazioni perpetue che tolgono la padronanza di sé medesimi.

– Sopra Cueste dal Lander ci stava un tipo, uno che s’era impuntigliato col dar ai figli solo nomi in A: Ada, Adamo, Adelmo, Agatopisto, Alfonso, Amelio, Antonio, Artemio, Astolfo, Attilio, Augusto… finitili, dovè usare altri nomi, ma questi figli con i nomi non in A alla fine li odiava.

Licôv è merenda o pasto che il proprietario dà agli operai occupati nella costruzione di un edificio, quando giungono al coperto. Dicesi fâ il licôv, ed il ritrovo ha carattere festevole, con imbandieramento o infrascamento del colmo della nuova casa. Si ha la stessa consuetudine, e si usa lo stesso termine, anche nel compimento di lavori agricoli di qualche importanza.

            – Ponga in essere quel suo ultimo carico, recuperi i suoi legni randagi e faccia tregua, ché abbiamo finito e si va fâ il licôv. La porto a bere una birra da Ho Chi Minh.

            – Non bevo.

            – Ho Chi Minh ha fatto per quattro anni il guardiano del parco alle Galapagos, dava da mangiare ai tartarugoni, vuole non bere una birra?

            – Potrebbe convincermi.

            – Anche lei mi aveva quasi convinto, con quel suo discorso che i gesuiti non erano tolemaici

            – No, infatti.

            – Mi aveva quasi convinto, e ciò nonostante gradisco restare sulla mia posizione ideologicamente preconcetta: la correzione che lei mi propone, e che di fatto ritengo comunque marginale ai fini della vicenda umana intesa nel suo complesso, mi costringerebbe infatti ad un aggiustamento di non poco momento di tutto il mio sistema di pensiero, e non credo avrei più la pazienza di ritarare il tutto: è una questione di equilibrio.

            – Di equilibrio.

            – Anzi, potremmo dire che è una questione di eleganza stilistica.

            – Diciamolo.

            – Del resto lei ama l’eleganza stilistica, la forma informante ma vuota, e ha il cranio ripieno di vocaboli oziosi e costrutti inattivi, oltreché pedanti.

            – Pedanti, vero.

            – E però non ha immaginazione, non dunque materia di cui riempirli.

            – Pare di no.

            – Ebbene, rammenta il parente filosofo?

            – Rammento, certo.

            – Occorre dire che da sobrio, vale a dire nel complementare dei venti venticinque giorni che ogni mese stavasi ubbriaco (al ere čhioc), anch’egli non dava mostra di immaginazione alcuna.

            – Non la dava, no.

            – Occorre dunque ipotizzare che le immaginasse, le storie, e poi le raccontasse, sempre solo sotto l’effetto della bevanda.

            – Occorre ipotizzarlo, infatti.

            – Massime quelle, ch’eran poi le sue preferite, di prigionia russa in Mongolia.

            – In Mongolia.

            – Nella quale Mongolia non sto a dirle che non era mai stato.

            – No, mai.

            – Tantomeno in qualità di prigioniero.

            – Tantomeno.

            – E men che mai dei Russi.

            – Dei Russi no davvero.

            – Se vuole dunque un consiglio, sperimenti il bottiglione: già, perché occorre dirlo.

            – Diciamolo.

            – E occorre anche dire che laddentro soltanto troverà la materia che le abbisogna.

            – Laddentro soltanto.

            – Quella e altra.

            – Già.

            – La stessa e diversa.

            – Vero.

            – Una e molteplice, che è e che non è, che appare e non appare.

            – Verissimo.