sabato 5 settembre 2020

Verticali 1

 


Forse per giuoco

 

 

Wird schon steigen, wird schon emporwandern, der Merkurius!

 

 

Cominciamento

Dove s’incontrano i personaggi principali della narrazione

 

Ah! chi vi riesca! ad immaginare un luogo alto e profondo, d’indole lavica e d’incerta geografia, situato incontro al soffiar d’ignoti venti, errato in latitudine e in longitudine e pur tuttavia da intendersi Alvernia: lo rappresentino qui questi sassi e queste solitudini. In siffatta immaginaria contrada si concepisca ora soprattutto un’insolita rarefazione dell’aria, e insieme una concentrazione disordinata, quasi a dirsi un accavallamento delle coordinate spaziotemporali, che rechi in conseguenza un continuo darsi d’eventi indebiti, e anche casuali. Di uno tra tali eventi, ignoto alla statistica e alla probabilità opaco, si narrerà la storia.

            Il luogo è quello detto. Il tempo è un giorno d’ombra, di novembre e di neve, di un anno dispari. I personaggi, che qui vediamo andarsi camminando incontro per sentieri opposti e diversi, sono: da sinistra il noto slavista Angelo Maria Ripellino, in veste da camera e in spirito di poeta tormentato; d’incontro il gesuita Daniello Bartoli, in abito talare ma in spirito di scienziato.

            Dello scontro che sta per avvenire non c’è traccia in alcun testo noto poiché Padre Bartoli non fu mai in Alvernia. Di certo avrebbe voluto essere all’Indie, e del desiderio ardentissimo che sentiva d’esse c’è ampia traccia nelle lettere ch’egli ancora novizio scriveva ai superiori, ai piedi dei quali si gittava con ogni affetto possibile, in tutto bramoso di quanto prima gli fosse possibile applicarsi alle fatiche dell’Indie e al desiderato fine della divina gloria nel martirio. Ma parve brutto destinare tanta prosa agl’orecchi infedeli dell’idolatro Oriente: così, sebbene in quel tempo la Compagnia consumasse ivi alquanti dei suoi buoni missionari, le richieste del Bartoli vennero fermamente respinte, ed egli pur riluttante, obbedientemente astretto ad un più mansueto regime di stanza.

            Consigliato dedicarsi dapprincipio al solo insegnamento istitutario, gli venne di poi consentito concedersi saltuariamente e con moderazione alla predicazione errante, e quest’arte egli praticò con zelo e con non poco successo in vari luoghi, d’Italia e fuori, sino a Malta. Ormai famoso, durante un domestico spostamento tra Napoli e Palermo Padre Bartoli fece però naufragio e con lui le sue preziose prediche: salvaronsi amendue e nondimeno anche la carriera di oratore sacro gli venne dai superiori riconosciuta troppo pericolosa: che d’ora innanzi Padre Daniello scriva, e ciò gli basti.

            Il Bartoli non andò dunque più da nessuna parte; in particolare non andò in Alvernia. E pure avrebbe voluto essere in Alvernia, onde fare il vuoto ai piè della montagna dentro a un vaso di bocca stretta, e con alquanto di quell’aria dentro turarne la bocca a stucco di materia tegnente, e forte, sì che di tal aria non potesse uscirne fiato, né entrarne d’altra: e così turato con esso il cannello immobilmente piantatovi, portare ogni cosa dal piede alla cima del monte. Perché se il mercurio non si vedesse calato in sul monte da quello ch’era nel piano, questa sarebbe una troppo chiara confermazione dell’esser vera la trovata del Torricelli.

            Peraltro nemmeno Ripellino fu mai in Alvernia. Fu vicino Praga, nel sanatorio di Dobris, ch’egli soltanto, per artificio e per assonanza, domandava Alvernia. In questo luogo, che non è cosa reale ma per ipotesi, è da supporsi sia avvenuto l’incontro tra il poeta e il gesuita, amendue in cerca d’insolita rarefazione d’aria, all’uno giovevole per il malanno, all’altro per l’esperimento; all’uno per cura, per istudio all’altro.

– O persona pensiva, che dritta contra me ti vai cozzando, procedendo forse per fantasie filosofiche in questa terra ruvida e irsuta…

– … in questa fungaja di sterco e di puzzura, di basalti e buio, per orbezza di lume io, strofinacciolo, rubalegni ruzzone, barattatore e truffardo, raso d’ogni baldanza, rosa bassanza d’orecchiuti lepri reco, e belvità di struzzolo…

– Che pro dello struzzolo il correre in questo luogo catrafosso?

– … in questo luogo catrafosso di pietra calcina, d’alabastri e asbesti: io, tribolato, pregiatore del catrame, di materia minerale, orché orbato di speranza, divenuto a vecchiaia, fugamento giovevole cerco, e distaccanza. 

– Fugamento e distaccanza? Orpo! Questa disusata vaghezza di parole, e questo tuo andar d’iperbole, quasiché di cometa: parmiti riconoscere nulla ostante il pigiama, pellegrin poeta.

– Questo mio andare è mesto, pure se d’anapesto: è un andar di fatica…

– … ed è un andar silvestro! Non mi riconosci, Ripellino?!

– Pan Daniel! Gesuita! Che il diavolo ti porti! Avrei dovuto capirlo subito dal ghigno, ma m’han tratto in inganno quegl’ordegni che rechi teco, e mi ti scambiaron per venditore, venditore di sonde lunari e di barometri. E io ho paura, sai, dei venditori di elisiri, di manuali di conversazione, di oroscopi e di barometri.

– Barometri, bravo. E sai perché reco meco siffatti ordegni?

– Per ornamento? Per penitenza? Non saprei, i monaci sono ambigui, e inafferrabili. Forse per giuoco?

– Per giuoco e per davvero: sto facendo un esperimento. Conosci Torricelli?

– L’Evangelista?

– Lui, il primo scopritore di quella oggidì tanto celebrata esperienza del mercurio nei cannelli. Conosci l’esperienza del mercurio nei cannelli?

– Non bene, per quel che concerne la teoria. Meglio per le applicazioni pratiche. Questo tubo graduato, per esempio – e cava da sotto la giacca del pigiama un termometro – che mi mostra la misura del mio male. Lo conosco e lo so affidabile, e molto sensibile. Quanto al barometro, me ne son sempre servito, devo ammettere, più come arificio retorico che come strumento scientifico. Ma tu pure, se non m’inganno, iperbolico gesuita, eri uomo di lettere e non di scienza; avvezzo, intendo, più alla figura retorica che a quella geometrica.

– Non t’inganni, poeta: ero uomo di lettere, e assai barocco. Ma il tempo ha intorpidito il mio furor sintattico, Iddio ha gastigato la mia grammatica superbia: troppa maniera attossica il cuore, Abellino. Ho dovuto cercar ricovero nella linearità del metro, quello che misura, e a poco a poco il mio ingombro itinerario attorto s’è cangiato in un retto sereno cammino, il delirio in ragione, l’ebbrezza in proporzione.

– E l’esperimento del Torricelli?

– Ci stavo arrivando, ché lì appunto, alle sensate esperienze, mi ha infine condotto il cammin che ti dicevo. È una curagione come un’altra, credo, come a quel che mangiava di molte salame gli convien poi di mangiare in bianco, o a quel che usava continuo alla taverna gli giova di bere solo acqua di fonte. Io mi costrinsi all’esperimento rigoroso, che di poi rendevo sulla carta in guisa di decoroso e composto trattato, che davo infine alle stampe, sempre con parsimonia. Ora, uno di questi trattati, che dedicai tutto all’esperienza del Torricelli, lo licenziai invero con troppa maggior fretta del dovuto, per modo che su di un punto son rimasto nel dubbio; e se non fo una prova, che son qui appunto a farla, la coscienza non mi si acquieta. Ma andiam per ordine. E come parmi non possa farci difetto il tempo, né nuocerci una breve intramessa tecnica, ti esporrò al disteso la questione: in primo luogo, hai da immaginare di fare il vuoto in un cannello.

– Lo farei volentieri, frate, se solo sapessi da dove cominciare.

– Cominciaremo dall’inizio.

All’uopo il Bartoli s’appressa ad una fontanella in finta pietra e discreto pessimo gusto, ove in arte varia e provvisoria son da ritenersi espresse le forme flessuose di due delfini di mare in atto torcente di saltato, tutto sommato secondanti un robusto fusto di colonna, le code infisse, in basso, in un piedistallo di conchiglie vere, in alto ottusi, serranti i musi due cannelle ottone.

– Vedi questo pesce? – Il gesuita sa che il delfino non è un pesce, ma non riconosce sembiante di delfino nell’effigiata creatura marina – se fosse alto diciotto metri non ci sarebbe verso di fargli sputare acqua. E ciò, bada, già ai miei tempi e forse anche prima era ben noto ai maestri fontanieri. Solo, loro dicevano trenta piedi, e finché il fatto rimase di esclusiva pertinenza di quei pur valentissimi ingegni non se ne fecero essi molto più che di un monito, o divieto a far fontana troppo alta. Tendevano infatti a sottovalutare la portata teorica di quel limite, riconducendolo tutto a material difetto ed imperfezione delle lor difettuose e dunque perfettibili pompe. Ma il fatto giunse ai curiosi orecchi di certi curiosissimi scienziati, i quali subito intesero doversi riferire il limite non a guasto di artificiata macchina ma a legge di natural natura, ed escogitarono un esperimento per più manifestamente vedere, ed altrui mostrare, l’altezza di trenta piedi esser livello naturale ed universalissimo. E l’esperimento fu il seguente.

S’impiantò in Roma, sulla facciata d’un palagio villesco di più piani, un tubo di vetro trasparente, lungo facciamo trentatrè piedi, apribile e richiudibile ad ambo i capi per azione di certi manovellismi che non c’interessa qui di sapere. Il capo di sotto chiuso ed immerso per qualche pocolino d’altezza in una vasca d’acqua collocata al piè del palagio, il tubo venne riempito, e subito sigillato da sopra, indi fatto aprire da sotto.

Come i savi esperimentatori, guidati da tal Gasparo Berti, avevan previsto e come i numerosi testimoni presenti, tra i quali alcuni confratelli, ebbero modo di confermare, il tubo prese a svuotarsi nella vasca, ma ciò fece soltanto fino a che l’acqua v’ebbe raggiunto il livello di trenta piedi; misurato, ben s’intende, dal pelo del liquido stagnante nella vasca. A quel segno l’acqua, contra il suo naturale di elemento pesante, s’arrestò di scendere e non diversamente che si fosse mutata in corpo di cristallo, o di purissimo ghiaccio, restò piantata nel tubo.

Domandavansi gli scienziati presenti, e così pure quelli assenti cui fu data nuova dell’esperimento, due cose massimamente. L’una, di cosa fosse piena la parte superiore del tubo, rimasta priva d’acqua, e il dibattito era tra pienisti e vacuisti; l’altra, cosa mai fosse che teneva sollevata la colonna d’acqua, e il dibattito era tra tensionisti e pressionisti: gli uni dicevano che era come tirata dall’alto da quel qualcosa, o anche da quel niente, che sta nel tubo, e cioè gli spiriti dell’acqua, o il vuoto medesimo; gli altri che era come spinta dal basso da quel qualcosa che sta fuori del tubo, e cioè l’aria. E ti faccio notare che questa della pressione dell’aria era speculazione recente, e di assai difficile accettazione.

– E il Torricelli?

– Il Torricelli, bravo, questo acceso sostenitore della pressione, quando gli giunse nuova dell’esperimento romano ne elaborò un’ingegnosa variante, assai più maneggevole e versatile, la quale consentì uno studio ben più approfondito della questione. E la variante fu di sostituire all’acqua il mercurio, o argento vivo, o idrargirio, che son poi tutti nomi d’uno stesso elemento, ch’essendo all’acqua pari in fluidità, ma oltremodo dispari in gravità, consentì al Torricelli di sostituire al palagio il laboratorio, al tubo di trentatrè piedi un cannello di tre palmi e alla vasca un bicchiero, più o meno come questo. – Il gesuita estrae dalla tasca destra un vaso di vetro polito, di bocca larga e di labbro sottile e molato.– Il cannello poi lo teneva turato colla semplice pressione del dito pollice, e da un solo lato, ché dall’altro il suo cannello era sigillato a fuoco: così – Bartoli mostra a Ripellino una specie di provetta per analisi, che viene di trarre dalla tasca sinistra.

– Una provetta?

– Una provetta, bravo. Ora immagina di riempire questa provetta d’argentovivo, turarla col dito, attuffarla capovolta nell’argentovivo stagnante in un bicchiero e sturarla. Questo è ciò che in gergo si dice fare il vuoto. Ti domando ora: cosa accadrà nel cannello dopo fatto il vuoto?

E prima che tu mi risponda a distuono, e a capriccio, tentando ad indovinare e com’è vero Iddio sbagliando, ti dico: pensa, Vanellino, pensa all’esperimento del Berti, e come nel tubo e nel cannello la similitudine è molto espressa, assimiglia. Poni mente all’esperienza dei maestri fontanieri, e come nelle materie filosofiche l’induzione è una gran prova, induci. Induci e allarga, Ripellino, generalizza e universalizza, ch’è come dire appoggia lo scaleo della conoscenza sul suolo amico del palagio villesco di più piani, sì che salga accanto al gran tubo di vetro trasparente, e con un occhio all’acqua ivi rappresa, sì da considerare, un occhio al mercurio nel cannello, sì da comparare, e uno alla scala, sì da non cadere, monta di gradino in gradino, ch’è come dire d’esempio in esempio, d’estensione in estensione e di generalizzazione in generalizzazione, fino al tetto del palagio di Roma. E come la scala, vedi, non è finita, sali ancora, ascendi, innalza il tuo piede, e il tuo occhio, e non ultimo il tuo senno, oltre il colmo del tetto del palagio di Roma, e di qui oltre i colmi di tutti i tetti di tutti i palagi di tutte le città, oltre l’universal colmo dell’universal tetto dell’universal palagio dell’Universo… Qui, posto innanzi all’evidenza dell’infallibile legge del livello del liquido, idrico o idrargirico o qual ch’esso sia, stàmpatela in ogni caso a caratteri cubitali in fronte, e badando che nell’andar non ti si cancelli, ché sarebbe un peccato, getta la scala, ch’è roba rozza, e in luogo di faticosamente disarrampicare i gradi che salisti, indossa l’ali di Mercurio e con volo planato e preciso, e rapido, precipitati qui nel bicchiero, ad insegnare all’argentovivo la regola ch’ei deve seguire.

Non potrà allora recartisi a maraviglia il veder che farai la provetta non rimanersi tutta piena, né tutta svuotarsi, ma di quel tanto che basta acciocché la colonnina di mercurio rimasta in piedi misuri una certa precisa altezza, universale ad ogni cannello ed indipendente dalla di questi foggia: siccome i diciotto metri dell’acqua. Quel tanto di che si svuota sarà in sostanza molto, se il cannello è largo, o lungo, e sarà poco, se il cannello è stretto, o corto. L’altezza raggiunta sarà però sempre la medesima: chi dice ventisette dita, chi ventinove e mezzo, chi due cubiti e un quarto, chi due piedi e un terzo, chi due piedi romani antichi, cinque once e ventitre centesime parti, chi tre palmi e nove dita, chi un braccio e un quarto, che son poi diversi nomi di una medesima altezza; diciamo per comodità trenta dita.

– Due cose, frate: la prima, se questo è quel che hai scritto anche in quel tuo trattato.

– Per quel che concerne la parte tecnica, le parole sono a un buon di presso quelle. Nel trattato però ho dato maggior agio alla penna, ampliando e distribuendo la materia in sei o sette capi: mi sono perciò valso dell’esempio e dell’analogia, onde render più manifesto il fatto al lettore, e più piacevole il detto; e son parecchi volte ricorso al repertorio dei classici e dei Padri, ove la penna di quei valent’huomini avesse meglio tratteggiato, e son tanti i luoghi, i contorni di quel che avevo in pensiero di descrivere. Perché noi si parla tanto, Gobelino, ma pur con tutto l’ingegno che abbiamo in capo e tutte le metafore che poniamo in carta non son rare l’occasioni che, nel nostro aggirarci curiosi in questo maravigliosissimo labirinto che è la Natura, nel quale uno stesso è l’entrare e il perdersi, restiam come bestioni, confuso l’ingegno e mutola la penna. E mentecatti, e folli saremmo se per non so quale mattissima presunzione di noi rifiutassimo di gridar: Soccorso!

E quale soccorso ci sarà più grato che quello del magno pontefice San Gregorio? o del grande Sinesio, vescovo di Tolemaide? e del patriarca Niceforo Gregora, suo esponitore, e di quanti altri, trovandosi forse nella medesima incertezza del passo, furon però sorretti e scortati dalla prudente mano del Signore Iddio, ingegnero e fabbro? Un intero capitolo l’ho poi serbato in lode del Torricelli.

– La seconda cosa è che più che gli ammaestramenti verbali mi verrebbe qui a giovamento la pratica dimostrazione, per capire quella storia del livello universale. Ti domando dunque se hai a portata di mano anche il necessario da sperimentare, ch’è come dir da bilanciare, da saggiare e coppellare quel vil metallo che mi gabelli per oro.

– Ho un bicchiero, e pur un cannello, ma non ho mercurio, così, sfuso.

– Ma non eri qui per fare l’esperimento?

– Sì, ma non questo. È una storia lunga, e mi hai interrotto appena all’inizio. Prendiamo il mercurio del tuo termometro.

– Ce n’è poco.

– Giurerei che hai altri termometri nascosti.

– Un paio, non di più. Ma poi resto senza.

– Andiamo, non fare il difficile; è in giuoco il progresso della scienza. E chi sarai mai tu? chi saremo mai noi, menomi animalucci sul gran corpaccione di quella gran bestia del mondo, per pensare di porre ostacolo al cammino augusto del sapere?

Il gesuita cita in difesa del suo apoftegma Macrobio e l’eruditissimo Boyle. Il poeta non ascolta; osserva oltre l’inferriata gialla il bosco e brandelli di pioggia, e nebbia sulle foglie.

– Senti, nella scontrosa foresta autunnale, il passo del cervo?

– Animal simplexet omnium rerum miraculo stupens. Plinio, libro ottavo, capo trentaduesimo. Allora, sei d’accordo?

L’esito dell’unilaterale contrattazione prevede il sacrificio di tre termometri: due piccoli e uno grande. Fattili a pezzi, il Bartoli n’estrae l’argentovivo e con una certa qual maestria empie il cannello e il bicchiere, nel quale bicchiere capovolge il cannello tenuto turato col pollice. Stappa il cannello e si pulisce con cura il dito nella tonaca, che sin nelle fibre più profonde reca tracce di altri molti esperimenti, in ispecie di quelli con gli acidi forti. Dal canto suo il mercurio scende dapprima con decisione nel cannello, indi si arresta. Il livello misurato è di ventiquattro dita grosse.

– Qui dice ventiquattro; non dovevano esser trenta?

– Son dita grosse; delle grosse ne bastano ventisette.

– E perché dice ventiquattro?

– Perché siamo in cima alla montagna.

– Hai detto che il livello era universale.

– Universale quanto alle fogge e dimensioni dei cannelli, ma grazie al Cielo dipende dalla pressione atmosferica, e questo a conferma di quanto mirabilmente antiveduto dal Torricelli. Le ventisette dita grosse erano ai piedi del monte, ma in cima l’aria spinge meno e bastano ventiquattro dita di mercurio per farle equilibrio. Hai da immaginare una colonna d’aria alta quanto la sfera dell’aria: questa colonna preme qui, sulla superficie libera dell’argentovivo: più sei in basso, più la colonna è alta: più t’alzi, più lei s’abbassa, ovvero s’accorcia, e meno preme.

E bada che questo non lo dico io, l’hanno incontrovertibilmente provato dei curiosissimi sperimentatori d’oltralpe, non ha molti anni, qui stesso dove ci troviamo ora io e te. Di tutto ho dato contezza nel mio trattato, ma giunto a questo passo avrei voluto – cito – che il medesimo esperimento avesse avuto a ripetersi da quei savi con questa accortezza: e cioè che il cannello non fosse rovesciato nel bicchiero, ma in un vaso di bocca stretta e con alquanta aria dentro, e che la bocca fosse poi turata a stucco, per modo di aver per certo che aria di fuori non v’entri, né fra lo stucco ed i labbri del vaso, né fra il convesso del cannello e lo stucco. Se le cose stanno come le ha divisate il Torricelli, quest’ordegno stuccato te lo puoi portare ovunque, nelle abissose fossure del mare Oceano e di qui sulle più alte cime del monte Olimpo, senza che perciò il livello interno del mercurio ne subisca alterazione di sorta. All’interno del vaso sigillato – è perciò che l’abbiamo sigillato – la pressione resta infatti costante, pari a quella ch’era ivi dentro al momento della chiusura, e ciò a prescindere da cosa accade fuori. Così.

Il frate mostra al poeta uno strumento rispondente alla descrizione. Nel cannello il mercurio misura ventisette dita.

– Questo dice ventisette.

– Ecco, vedi, e che ciò sia manifesto anche al tuo occhio imparziale di critico, e assai pedante, è una troppo chiara confermazione d’esser vera l’antiveduta del Torricelli: il mercurio starsi sollevato per cagione di pressione esterna; d’essere ben riuscito il mio pur modestissimo esperimento e d’esser infine ripagato il lungo tempo, ed amicizia e denari, da me spesi a cercar di avere uno stucco che soddisfaccia, altro da quello comune, che corre per buono ma non si mostrò in fatti adatto all’uopo: non abbastanza tegnente, ed altro anche da quel che s’usa da provatura, cioè la calcina che lega indissolubilmente le tavole, che si romperan tutto altrove che nelle giunture: troppo lungo questo al disseccarsi.

E se ti paion queste materie vili, e basse, sappi che vile, e basso, è l’esperimento in sé, e con tutto ciò esso è materia insostituibile nel lastrico di quell’unica via che mena alla conoscenza: materia vile e calpesta, su cui s’ergerà però finalmente – e Dio sa quanto solidamente – il turrito edifizio della teoria. Lastrico incerto e difettuoso – è vero – ma pur con tutto ciò pavimento di strada maestra, com’è da tenersi la via dell’esperienza dal filosofo naturale, e da quanti sulla sua scorta e nel solco del suo esempio ardiamo avventurarci – oh! con quanta superbia, con quanta incoscienza! – nel periglioso pelago del sapere, e osiamo misurarci, noi picciuolette navi, colla misura smisurata del mare.

Deh! Dimmi se può vedersi una navicella mal impeciata, o peggio una zattera malconnessa di canne frolle, ché in questa forma avremmo più propriamente a figurarci il nostro intelletto manchevole, in paragone fin anco di una menoma particella della sapienza di Dio; una navicella o zattera, dicevo, che offra intere le sue vele al vento della astratta speculazione, che senza posa soffia, e aggrandisce, e di sé si alimenta, fino a mutar in tempesta, e in tormenta, e con turbini e zaffi rapisca il natante, quasi aligero Icaro veliero, verso il largo. E quivi esso perisce. Solo è da decidere se di balena, che disse bene Isidoro: grandissima è la balena, e di grandissimo appetito, ovvero di vortice e flutto marino, che con la smisurata potenza che questi hanno in mare aperto, cosa può mai la misera nostra barchetta se non sfasciarsi e tutta inabissarsi nelle profondità imperscrutabili del regno immenso dell’enosigeo Nettuno?

Ora non hai tu da credere ch’io per ciò metta in ispregio la speculazione teorica, dannandola di male assoluto, ché questo sarebbe farneticar di mentecatto e non parlar di filosofo. E per restare alla nostra metafora marina, o io m’abbaglio, o di spaventosa apparenza è la difficoltà che si para davanti allo sprovveduto navigante il quale voglia far viaggio senza vento, che gonfi e spinga le vele; che è come dire senza l’ausilio della teoria, che sostenga e guidi il cammino dello sperimentatore. Solo è d’uopo tenere a bada la furia del vento, come disse vero il Teologo Giobbe (cap. 25), acciocché la speculazione non giri a fantasia, e la teoria a vaneggiamento, e il piloto non addivenga perciò preda delle Sirene, oltreché delle balene.

Oh! quanti valenti ingegni che per gettarsi nelle astrazioni e tenersi sulle universalità han dato forma a sistemi fantastici, descrivendo mondi da far orrore al mondo! Quali mai Circi hanno mostrato loro, sotto il sembiante del vero, tante e tanto svariate fallacie, che quanto sien lontane dal giusto basterebbe un semplice esperimento per farlo palese al mondo intiero?

L’esperimento, Vanellino, questo attenersi costantemente al dato, e al fatto, è come canapo di fibra robusta, che saldamente ci lega, e come arpione di politissimo acciaio, che costantemente ci richiama al porto sicuro della terra ferma. Esso è mezzo, Abellino, ed è instromento, insieme è gomena, ed è paranco, sestante e calamita, bussolo che governa e che addita. E insieme addita il polo e addita il polpo, ch’è come dire la salvezza solida della certezza e il periglio liquido del dubbio, e tentacolare. Ché devi sapere…

– No, gesuita, non voglio saper altro! Non il polo e non il polpo, non il periglio e non la salvazione. Non voglio ascoltar gli esperimenti, non gli ammonimenti, non gli scienziati e tantomeno i preti. Sento odore forte strano, come di fuffa, e di truffa, in questo tuo andar disvertebrato, di omiletico scienziato, in questo groppo dissennato di preghiere e prescrizioni, in questo sozzo andirivieni tra la curia e la fucina, e la furia, e la cucina…

Non ti seguo, Padre, ma ho forte l’impressione che tu stesso non stia andanado da punte parti. Né posso pensare sia tua intenzione non andar da punte parti, come tu fossi venuto qui, in questo giardino di sofferenze e stenti, non per sorte ma per sempre, per restarci, intendo, come me.

– No, infatti ero venuto giusto per l’esperimento.

– Bene, allora come sei venuto, così te ne devi andare: subito, lontano, fuori di qui. Tu che puoi, e che forse sei ancora in tempo. Forse.

– Cosa intendi dire?

– Quel che ho detto: che sei ancora in tempo. Forse. Dove “forse” sta per il dubbio. E il dubbio concerne l’effettiva possibilità di uscire, di andare da qualche parte. Hai notato, Daniello, cosa accade mano a mano che ci si approssima al bordo?

– Quale bordo?

– Il bordo del parco della Fortezza, il confine di questo giardino in cui ci troviamo ora, io e te a discorrere amabilmente, l’inferriata gialla là in fondo; hai notato? Ad avvicinarsi, di lontano, sembra di andar diritti: si punta ad un punto X, quel palo storto un po’ arrugginito, per esempio, e però una volta partiti non ci si arriva mai. Il palo, di per sé, resta lì, fisso, e la distanza è costante, ma il cammino che vi dovrebbe menare, quello cambia. Eccome cambia: si allunga, si arrotola, si avvoltola e contorce, e come si rifiuta d’andarci. Ma non è lui solo, non credo, è lo spaziotempo tutto a contorcersi: quel fuori e quel dentro. Come a dire che l’andar del piede, malfermo e sghembo, riproduce di fuori l’analogo, didentro, andar dirotto del pensiero, indi del dire. Noi qui ci abbiamo ormai fatta l’abitudine. Ma tu – ci hai fatto caso? –, tu pure, Daniello, alla fontana dei delfini, in mezzo al parco, parlavi parole sagge: precise e concise, proporzionate e misurate. E spedito era il passo. Dopo poco, però, hai cominciato a divergere, pian piano a disperderti, smarrendo al contempo il tuo contegno di filosofo e il tuo cammino di scienziato; hai preso ad incespicare, e scartare, e inciampare, e però nell’ostacolo indugiare, in quella tua maniera ricascando. È successo – te ne sei avveduto? – quando abbiam fatto per appressarci all’inferriata, all’altezza del frassino grande, là verso il cancello: è lì che te ne sei uscito con quella storia dello scaleo, e Niceforo patriarca, e il labirinto. Sempre passeggiando riconvergevamo al centro, e tu pianamente spiegavi il tuo esperimento dello stucco – idea geniale, semplice e geniale, se mi consenti un commento – ma appena incamminatici lungo l’opposto raggio, di nuovo centrifughi, ti sei imbarcato in quell’altro ardito apologo marino, già stucchevole in principio e via via più deplorevole a mano a mano che il discorso procedeva, e noi pure discorrendo ci avanzavamo, sempre più approssimandoci al bordo… Per questo ti dico: “forse”. Forse è persino ormai inutile tentare: da qualche parte sta scritto, forse in cima allo scaleo, oltre il colmo dell’Universal tetto, che di qui non si può uscire. Non c’è strada, Daniel, come c’insegna Zenone d’Elea, ed ogni fuga è vischio: più ci si appressa al termine, più il cammino si fa faticoso, più lenti e scarsi i passi, più pochi e più erti i vialetti, e sempre più aggrovigliati e impercorribili, specie con queste babbucce a scacchi.

– Apprezzo assai la metafora, ardita, ma hai mai provato a passare dal portone principale? Io di lì son entrato.

 

Stazion Prima: Chitone

 

S’è detto che l’Alvernia di cui si dà qui conto seguendo le indicazioni di uno dei massimi esperti in materia è innanzitutto una costruzione del pensiero, una struttura sintatticamente e simbolicamente instabile nata dall’accostamento sonoro delle impressioni d’inverno, averno, verna, Auvergne e della canzone per l’Auvergnate di Brassens, cantata da Juliette Greco. Va aggiunto che questa  immateriale idea iperurania di Alvernia, con tutto quanto il groppo di significati che le si accompagna, si trova in ultima analisi attualizzata, ed in virtù di certi acconci principi precipitanti concretata, in una sublunare costruzione di solida muratura: una struttura materiata, insomma, e materialmente esperibile nella figura parallelepipeda della Fortezza. O sanatorio.

In quanto oggetto reale la Fortezza, o sanatorio, possiede saloni, cucine, corridoi, ambulatori e camere, con dentro camerieri e cuochi, medici, infermieri e ospiti. O degenti. Che son poi malati di malattie dei polmoni, giovevole l’altitudine, e per essa la purgazione grande dell’aria, ma anche di altri molti mali, qual più qual men grave, comune a tutti la condizione di sofferenza, ch’è abito dello spirito, e quella di isolamento e prigione, ch’è abito della materia. Massime della materia laterizia dei muri spessi di sasso, e di quella robusta delle porte di piombo della Fortezza, entro il cui rettangolo perimetro è dato ai malati di diportarsi. E oltre le porte nel parco, lungo girevoli gomitoli di bianchi vialetti, centrifughi al bordo, ove la condizion di prigionia è finalmente espressa, ed inderogabilmente sancita dal metallo giallo della recinzione. Non oltre.

Non oltre l’inferriata gialla, nella fitta foresta autunnale, è dato di spingersi agli abitatori del maniero, e a maggior ragione non oltre la foresta, verso la smessa stazione ferroviaria, alla volta dell’unico treno che vi arriva, e riparte, una volta al giorno.

Ma grande è l’invidia degl’interni per gli esterni, dei malati pei sani, dei prigionieri pei liberi, e grande è l’impulsione a salire sul treno, guadagnata la smessa stazione, traversata la fitta foresta, oltrepassato il limite giallo. Il salto dell’inferriata essendo però precluso al malato, vuoi da regolamento, vuoi da debolezza, s’impone continua l’invenzione d’un più agevole varco.

– Hai provato a passare dal portone principale? Io di lì son entrato.

– E il custode?

– Quale custode? Io non ho visto nessun custode.

– Quel signore là coi calzoni e le soprascarpe di velluto, secco, col viso asciutto, lunga la barba e di pel bianco mista.

– Quel veglio solo con quel bacile in capo? Non ha l’aria, né l’abito del custode.

– Infatti non è il custode; qui non c’è custode. Egli crede purtuttavia d’esserlo, e come tale si comporta, impedendo di fatto a chiunque il transito, ad oltranza ostacolandolo con parole infinite. Non ci avviciniamo, te ne prego.

Ma il gesuita, ratto, s’è già fatto accosto al finto custode.

– Ditene, onest’uomo, è per qui che se n’esce d’esto ospizio di monte, loco ambiguo e doloroso, di verzure e patimenti?

– Non qui: per altra via… – Distolto di sue liquide fantasie di vecchio, l’uomo volge il guardo all’apparita figura di frate e trasalisce: E voi chi siete, persona diabolica e smisurata, lunghissimo e nero d’abito, e di scarpe forti? Forse un pericoloso gigante?

Anche il poeta, più lento per via delle pantofole, s’è ormai appressato ai due, ma il custode, uomo sospettoso e mai pago dell’apparenza che il mondo in generale, e nella fattispecie l’amico poeta e compagno di prigonia, ovver degenza, gli mostra dal di fuori, interpreta nel senso del sospetto e dell’inganno anche la presenza insolita del religioso suo ospite.

– Non temere, alto custode, costui è mio ospite, buon amico ed ottimo cristiano.

– Senti chi parla! Titorelli, il poeta, il monotono e triste dipingitor d’angosce! E perché mai dovrei io crederti? Per la virtù dell’amicizia? Per l’onestade del sembiante? Ne discutevo proprio l’altrjeri con Janacek: “Va e ti fida del sembiante, Leos” proprio così gli dissi: “Va e ti fida del sembiante… Quel Titorelli, per esempio, dietro quella sua maschera d’artista triste, io dico che nasconde qualcosa. I baffi, per esempio, i baffi io dico che sono finti. Non ti far incantare, amico, sta in campana, che l’insidie e le avventure si celano dove più s’esibisce la bonaccia”. È dunque inutile che spacci il tuo amico per gigante, lo vedo bene ch’è un gesuita, un subdolo gesuita con sostanza di diavolo. E scommetto che non è neppure… insomma, non è dei nostri… capiscimi, Titorelli, non ha… voglio dire, non è…

– Non è malato? No, non è malato. Almeno non nel suo corpo mortale.

– Ohi, Ohi! Allora sarebbe bene che uscisse subito da questa corte di appestati.

– Appunto.

– Peccato che di qui non si possa uscire.

– Ma sì che si può, lui stesso dice d’esser passato di qui, per entrare.

– Per entrare, appunto, ma non per uscire. Uscire significa infatti uscire, passare oltre, andar di fuori, scender di sotto. E sai cosa c’è oltre? Sai cosa c’è là fuori, poeta, sai cosa c’è là sotto? Oh! là fuori, là sotto vaneggia l’abisso! E se ti par grave questa rocca in alto monte, è che non hai mai visto il misero vallone, il regno di Trantaría, circondario d’Alvernia. Innanzitutto c’è il fossato, coi cervi. Poi, narrano, il cupo fondo della valle, col livido color della petraia, ch’è un aridume di calce, paludi puzzolenti e taluni anche stagni boglienti, le ripe grommose di muffa, come nell’arene d’Etiopia. Dicon non vi si trovi fronda verde, ma rami e ramaglie di colore fosco, sterili di frutta per pascere e d’ombre per ristorare; e sterpi, e strazi, e stecchi, e tra gli stecchi serpi, e granchi, ed altre bestie strane, nebulose e oscure, ch’han per lor naturale il vivere, e nutrirsi, e partorire nell’aure morte di quest’arena di tenebre. E dalla cima qui del monte al piano pare sia la roccia discoscesa, tutta di pietra e di color ferrigno, di ronchi, e scaglie e scogli sconci ed erti, che son anche alle capre duro varco.

Ci sarebbe, è ben vero, l’uscita sul retro: quella non dà sulla foresta, ma su un luogo ameno, così dicono. Solo arrivarvi, nella pestilenza del morbo che attossica la Fortezza, e beninteso il traversando parco: il tuo amico, lì il diavolo, è integro nel corpo, ed integro sarebbe d’uopo preservarlo nel tragitto. Sto pensando come fare… Forse con un filtro, forse… un intruglio, un unguento, o una pozione, forse, d’uno di quei buoni incantator di un tempo, un mago che mille malie fa coi sughi, con erbe e con imago. Ma per quanto possa parer bizzarro, non abbiamo maghi, qui al Fortilizio Incantato… E allora forse un lavacro, un bagno portentoso in certe acque lustrali… o anche un altro gesto, solo che accompagnato dalle giuste divozioni: ho letto di recente di taluni giunchi schietti, con cui cingendosi si resterebbe preservati dal male.

Facciam così: porta il nero frate al laghetto, Titorelli, dove sono i pesci di Loplòp, cingilo d’uno di quei giuncastri che vi crescono in abbondanza, sotto il pelo dell’acqua e cintolo, là sulla sponda, là giù, colà dove la batte l’onda, prendilo teco, e teco conducilo, così mondo, senza tema di alcun contagio, oltre il laghetto dei pesci, lungo i vialetti bianchi e le panchine di ferro, nella luce dondolona dei lampioni nella nebbia, oltre l’orrenda fontana dei draghi, oltre la torre incantata, insino al ponte di pietra, all’albero della cuccagna, dirimpetto al cancello verde, quello coi tre scalini, sul retro. Di lì uscirà egli con agio, senza chieder come tutti, cigolando…

Il poeta prende il gesuita per la manica e lo tira in parte.

– Dì di sì, Daniel, dì ch’è certo, che ti cingi e mi segui. È un poco matto, e molto permaloso. 

– Più che altro, mi sembra che dica cose note.

– Ha la testa ripiena di libri. Prima, prima di arrivare qui, dicon si nutrisse di libracci: letteraturucola da poco, certe storie inventate e libri d’avventure di cui possedeva un’intera biblioteca. Da quando è qui è diverso, ché deve far con la penuria di titoli disponibili alla Fortezza: più che altro classici e quel poco d’altro che ci portano da fuori. Nel fondo, però, è rimasto lo stesso: roba da rimettergli il senno in capo a forza di elleboro, solo ha mutato di stile, e d’ornato.

Così dicendo il poeta scorta l’amico al laghetto, poco discosto dall’entrata principale, poco profondo ma non piccolo, ripieno di nelumbi, gamberi, ranocchi e certe esili canne, o giuncastri.

– Sai, Vanellino, questi giunchi schietti che così pazientemente secondano la percossa della corrente io già ne vidi altrove di simili, seppur maggiori. Scrivendo infatti molti anni fa l’istoria del Giappone, e giunto al dover tragittare un dei nostri Missionari da Voxu a Giezo, ch’è più su del Giappone cinque o sei leghe nostrali, misurate da spiaggia a spiaggia, m’abbattei colà dove Toxi (ch’è un lato di Giezo) fa punta in una furiosa corrente, che dì e notte, senza mai rivoltarsi o restare, vien giù di Tramontana a mezzodì. Trovai quivi stesso un canale di poco fondo, e sì angusto, che nella riva opposta si discernevano i cavalli, e in esso tutta sott’acqua una selva foltissima di Bambù, cioè canne di straordinaria grossezza, buone per cingere il gigante Briareo, le quali vi facevano ciò nonostante un lento, perpetuo ondeggiare. E ciò era perché la corrente, premendole e rapendole, se ne tirava dietro le cime, ond’elle a forza s’incurvavano: ma non poteva l’acqua, tuttoché sempre d’uno stesso vigore nel muoversi, tenerle giù così oppresse e chine, onde elle, ripigliato ardire e possanza, riergevano, e si drizzavano in piè: come la fronda che flette la cima nel transito del vento, e poi la leva per la propria virtù che la sublima.

– Dunque tu sei stato in Giappone?

– Io? Mai.

 

Seconda Stazione

Nella quale si discute dell’esistenza del vacuo e della vacuità dell’esistenza

e s’incontrano tre nuovi, ingegnosissimi personaggi

 

La Fortezza d’Alvernia, o Fortilizio incantato, è una fabbrica cubica, d’andamento lineare e al vederla compatta, monotona e stanca. All’esterno il suo parco è strutturato in forma di groviglio, o garbuglio, di vialetti bianchi. Lungo i vialetti sono poste, ad intervalli regolari, numerose panchine da giardino ed aiole di piante grasse. Ai crocicchi sono collocate statue di pietra e fontane di gesso, più spesso grossi alberi ma anche stagni e laghetti, uno molto grande, prossimo all’ingresso, con dentro barbi, padellini zebrati e pesci acrobata a strisce. Sul fondo del lago s’impaludano certi giunchi schietti, i quali pazientemente e perpetuamente secondano la percossa dell’acqua. Oltre a ciò si trovano nel giardino: il giardiniere Mentzelius, àgavi, cavalli, rigogoli, farfalle, cervi smarriti, oche, fili di pioggia, volpi, tassi, rane, lumache, fredde foglie, nebbie, pavoni, talpe, uccelli spauriti, funghi, piante appassite, neve.

– Io odio la neve, le àgavi, i cervi, le àgavi, i cervi, la neve.

– Io odio i vialetti fatti ringhiaiare di fresco, e le panchine dei giardini, e i nanetti e i funghi di gesso. Qui non avete nanetti e funghi di gesso; alla Casa dei Professi ne abbiamo molti; grazie al cielo le intemperie e gli urti occasionali li van sgretolando. Io amo urtare occasionalmente i nanetti e i funghi di gesso con questo bastone da passeggio, ad esempio, e con queste scarpe nere di cuoio duro.

Sotto le scarpe nere lustre lustre, lunghe e forti, a suola doppia del gesuita il ghiaione del vialetto stride fastidiosamente e scricchia e schizza; s’incastona mollemente, come mandorle, nella suola felpata delle babbucce a scacchi del poeta.

– Dunque non sei stato in Giappone.

– Mai. A dire il vero non sono mai stato da nessuna parte, se fai eccezione per qualche giovanile giro di prediche in qualche parte d’Italia, in tempo di Quaresima. E per qualche uscita di lavoro, come questa.

– Dunque non sei venuto a trovarmi.

– Ero qui per lavoro, t’ho detto, per via di quell’esperimento: conosci Torricelli?

– L’Eulalia?

– L’Evangelista.

– Luca coll’occhi d’Argo all’ali?

– Ti vedo distratto.

– È che stavo guardando quel cervo; vedi quel cervo là fuori?

– Animal simplicissimus, il cervo, stupisce di tutto. Ero qui per lavoro, ti dicevo: lavoro d’ingegno, s’intende, e insieme di mano: l’ingegno alla speculazione e la mano all’esperimento: un occhio alla cagione ed uno al fatto: alter remus acquaalter tibi radat arenas, come i due fratelli Colombi: Bartolomeo a delineare le carte da navigare e Cristoforo ad adoperarle, in scambievole ammaestramento. Andavo cercando un’aria purissima e sottile, che s’è vera l’ipotesi del Torricelli è anche meno violentemente compressa, e preme meno qui, sulla superficie libera del mercurio stagnante nel bicchiero.Vedi, infatti segna ventiquattro.

– E non dovrebbe?

– Sì che dovrebbe, perché siamo sulla cima del monte. Quest’altro nel vaso sigillato a stucco, che l’ho riempito e richiuso a valle, vedi che segna ventisette. Ma non mi segui, lo vedo.

– È che mi ha distratto quella faccenda dell’aria. Ti sei chiesto perché io pure son qui, sulla cima del monte?

– Per diporto? Per penitenza? Forse per giuoco? Non scherziamo, signor Solferino, lo so bene perché sei qui, in questa Fortezza sulla cima del monte: sei qui per l’aria, come me. Sei qui per beneficiare delle proprietà curative di quest’aria d’alta quota, più respirabile perché più sottile, e più sottile perché più disviziata, e monda, e purgata di quella ch’empie l’inferior parte del mondo, ove per la universale traspirazione dei corpi; e dico corpi semplici e misti, selve, monti, miniere, animali e caverne, e lor sfiatatoj, si producono, e per soffiar di venti si sollevano, e in perpetuo s’agitano impure e grosse essudazioni, vapori, spiriti, esalazioni e sostanze volatili e altre centomila fumicazioni che la rendon lorda e spessa, fermentata e grossamente impastata, e perciò premuta e corpulenta, e al tuo mal nocevole; siccome la feccia, la posatura e il lezzo fan torbida e brodolosa, e perciò dannosa l’acqua.

– La gorgogliante brodaglia dell’immenso brodulario.

– Cosa?

– Niente, pensavo al lurido mondo.

– È che tu esageri, Ripellino, esageri e abusi: coll’induzione e col giudizio. È che tu pensi sia lecito prender l’universal misura del dolore dalla particolare esperienza che ne hai fatta. Ma non perché il tuo tormento è stato grande – e grande è stato nei fatti – sei tu autorizzato ad emetter giudizio di merito sulla sofferenza in quanto tale, e sul mondo in generale. Non perché hai tu molto sofferto è il mondo in sé cattivo, non lurido: che cosa avrebbero altrimenti dovuto dirne quelli che per davvero han sofferto, e dico i nostri santi e i nostri centomila martiri: quello annegato nell’olio, quello tormentato colle cannucce nell’unghie, quello arrostito e scorticato, quello trinciato vivo in 1600 pezzi e quelli abbocconati eziandio in 3000? Anch’essi han patito, Ripellino, come te e più di te, ma a differenza di te han tenuto ciò nonostante in pregio il mondo, e per esso il suo Artefice, e infinitamente buon Dio.

– A differenza di me, infatti, loro lo volevano: d’esser sofferenti e tormentati; lo volevano e con veemente desiderio lo domandavano: spade, bastoni, olii bollenti, cannucce nell’unghie e ogni sorta di patimenti, stenti, persecuzioni e fin anco la morte, quando piacesse a quel vostro infinitamente buon Dio. Io invece non ho chiesto niente di tutto ciò, Pan Daniel, non ho chiesto percosse e tormenti, né infedeli botte e vessazioni; ma neppure fisiologici malori, singhiozzi e rantoli. E non ho chiesto queste bende di Lazzaro, questi buchi, queste bave e pillacchere, e tutta questa puntaglia di spini e trafitture di catarri e spaventi, questa podagra perpetua prima del ballo che mi spegne e mi aggriccia su questa panca verde, io ch’ero un tempo incendio, furia e spasimo, io ch’ero un tempo superbo come il principe d’Eboli…

Il poeta s’è stancamente abbandonato su una delle panchine del parco, accanto il gesuita. Immersi e assorti nei loro conversarî non s’avvedono dell’approssimarsi di due figure nere, in abito lungo e decoroso portamento, le quali evidentemente incuriosite dal dialogo s’arrestano a pochi passi dalla panchina, quasi rannicchiate contro una curiosa balaustra in finto marmo, finemente istoriata a bassorilievi.

– Volontà di durare, gesuita, di perseverare e imperversare: un atroce desiderio di vivere nonostante il mio male, nonostante il mio umido stato di maschera, a stento tenuta in piedi da apotecarie ricette, nonostante l’impassibilità del mio mondo e nonostante il disfavore del tuo Dio, frate, che da sempre mi volta le spalle. Già, perché non io solo, Daniel, tutti noi siamo nati dal malumore di Dio. Dio è stanco, gesuita, è solo e sfiduciato: dicono che nella sua botteguccia di orologiaio allevi criceti negli armadi della biancheria… Forse perciò: per distrazione, per ricreazione, forse per giuoco vi comanda quegli strani strazî, quei buffi esercizi di penitenza, di funambolica sofferenza…

“Ora esagera!” La figura di sinistra sta tirando per la tonaca quella di destra, come a spingerla ad intervenire, ma il poeta subito ricomincia: 

– Vuoi farlo divertire? Vuoi scendere anche tu a ballare per lui, coi suoi criceti e i suoi martiri, coi suoi nanetti e i suoi funghi? coi sassi nelle scarpe? coi bastoni e le spade? coi sacchetti di crusca al costato? o forse con gli stecchi di cannucce nelle unghie? trinciato vivo in 1600 pezzi? Fallo, Pan Daniel, io, ora come ora non ne ho alcuna intenzione. M’ha costretto su questa panca? Bene! io ci resterò, su questa lunghissima panca verde, ben ben fuori del vostro stupido gioco, in disparte a guardare, come uno spettatore impassibile, sgradevole e sgradito, appassito, imbambolato e cosparso di crepe ma sempre sovrano…

– Sempre no, Vanellino, perché prima o poi lo spettacolo finirà, il marionettaio nascosto dietro le quinte, il divino puparo, smollerà i fili dei suoi pupazzi, e allora nanetti, criceti, vescovi, santi e martiri cesseranno d’un tratto di danzare, gli spettatori saranno invitati ad alzarsi, e anche da te, sulla tua panchina del parco arriverà un ligio servo in livrea, il quale toccandoti cortesemente sulla spalla ti dirà: suvvia, Abellino, sia gentile, se ne vada, che qui si chiude…

Che farai, allora, mio buon spettatore impassibile, quando davvero ti toccherà di lasciare il posto?

–  Cincischierò, Daniel, traccheggerò… “Signor Epilogo, gli dirò con circospezione, non c’è bisogno di voi”… eppoi fingerò di non trovare la manica del cappotto…

– Già, ma prima o poi le toccherà di trovarla, signor Armellino, e trovatala le toccherà di uscire, e di corsa! E se la danza del dolore, là dentro, non era di suo gradimento, m’immagino come potrà lei apprezzare quel che c’è là fuori. Già, perché se questa sua insensata costruzione rispondesse al vero, sa che cosa troverebbe là fuori? Troverebbe, signore, il Buio Pesto, il Vuoto, il Vacuo nella sua propria significazione, ch’è di essere niente, cioè nulla: puro e semplice nulla!

I due sulla panca si voltano verso la voce che ha parlato sì sagge parole. Scorgono allora i due figuri instanti contro la balaustra. Entrambi vestiti di nero, con in capo il cappello a spicchi. Il Bartoli s’alza di scatto:

– Padre Atanagi! Padre Lana!

– Li conosci?

– Ci conosciamo tutti, nella Compagnia. Qual buon vento?

– Ci s’aggirava qui per questi vialetti, al solito ragionando, io della capra lui della rapa. Padre Lana mi raccontava dei vantaggi del novissimo termoscopio del Duca di Toscana, che mostra ora il freddo ora il caldo senza verun pericolo che il liquido si agghiacci, o si consumi, o si versi, ed ha in più il vantaggio d’esser portatile. E questo medesimo serve per regolare i gradi del caldo nei fornelli dei chimici; per ritrovare e mantenere il calore necessario a far nascere i pulcini dalle uova senza opera di gallina; per far cuocere le uova medesime a quel segno che uno vuole e per molte altre cose ancora. Io gli dicevo delle camere parlanti – ti ricordi, Daniello? –“Ma più d’ogni altro m’è venuto alla penna il Padre Atanagi Kircher – cito – il quale ha presi buonamente di molti abbagli nella materia del suono, ed io gli espongo, e ne mordo i falli: e perché nol nomino dov’erra, mi fo talvolta lecito nel rifiutarlo dargli discretamente qualche puntura per destarlo e fargli aprire gli occhi, e non scrivere, come ha fatto non poche volte, troppo alla cieca.” Son parole tue, o mi sbaglio? Superbo come il principe di Eboli! Mi piace, ti si addice.

– Ho dovuto; trattavo della questione e non potevo passar sotto silenzio i tuoi errori, solo perché sei un gesuita, o perché stavan nascosti in uno di quei tuoi centomila libroni, ripieni di vanagloria e di rumor mondano, smisuratamente lunghi i titoli: Liber Philologicus de sono artificioso sive Musica, e cioè prima istituzione, età, vicissitudine e propagazione di questo e quest’altro; Phonurgia Nova sive Conjugium Mechanico-physicum Artis et Naturae Paranympha Phonosophia Concinnatum, che dice l’universal natura dei suoni, proprietà, virtù e Cause d’effetti prodigiosi, con esibizione molteplice d’esperimenti; De prodigiosis Crucibus, che comparvero sulle vesti degl’uomini ed altre cose dopo l’incendio del Vesuvio di Napoli; OEdipus Aegyptiacus, ch’è il recupero dell’Antica Dottrina Universale dei Geroglifici, abolita dall’ingiuria dei tempi; Lingva AEgyptiaca restitvtaSphinx mystagogaItinerarium exstaticum, ch’è il viaggio del Padre Kircher al centro della Terra. Anzi, dal centro della terra al concavo della Luna… Ah! che il tuo animo gallava in alto, Atanagi!

– Io almeno ci salivo colla mente, al Cielo della Luna, e collo spirito della Santa Fede. Epperò m’hai bastonato. E cos’avresti dovuto dire, allora, del tuo amico qui, il nostro buon Padre Lana, che ci voleva andare colla Nave Volante? Vero, Franz? Che se la povertà religiosa che professiamo non ti avesse impedito di spendere quel centinaio di ducati che ti abbisognavano, l’avresti fatto sul serio, finendo come quel tale, di cui non sovvienmi il nome, che passò volando dall’una all’altra parte del lago di Perugia, benché poi, volendosi posare in terra, si lasciò cadere con troppo impeto e precipitò rompendosi una gamba.

Già, ma voi siete amici, tu e il tuo buon Padre Lana, e allora tutto gli si perdona – vero, Daniel? – e gli si concede l’oriuolo senza carica, l’albero senza seme, la scrittura dei ciechi e la lingua dei mutoli, il termometro zootecnico e la taumaturgica pozione, per non dire di tutte le guise di moti perpetui che il tuo amico, nonché mio scolaro, si trasse dal capo: colla coclea, colle trombe, coi secchi… e di tutte le sorti di trasmutazioni miracolose che disse d’aver posto in opera: il ferro in rame, l’argentovivo in piombo, e financo l’argentovivo in vero argento… E poi gli uccelli che da sé volano per l’aria e infine la Nave Volante, quel bel “lavoro di speculazione moderna”… anche queste son parole tue, caro Daniel: “speculazione” non “farneticazione”, con tutto che s’io mungevo un capro, come tu credi, Franz mi teneva sotto, per coppa, un vaglio.

Ma sia, se tanta fiducia poni nelle sue trovate, cosa aspetti a salir con lui sulla sua nave, e con le tue nozioni di erudito pedante sostenerlo nelle sue mansioni di aggiustator del mondo? Aiutalo, Daniel, che s’io mal non indovino ne ha gran bisogno: dovete perpetuare il moto, far legger i ciechi e parlare i mutoli, misurar la temperatura delle galline e soprattutto preparare, e in abbondanza, quell’ottima panacea, o medicamento utilissimo a preservare e a guarire da ogni sorte di infermità… E anzi, già che ci siete, perché non ne mandate magari un due tre barili anche qui alla Fortezza, a me e a questo signor Armellino, che non mi par di conoscere ma mi sta simpatico. Forse perché, così di primo aspetto, mi ricorda uno degli scolari dell’Arcimboldo. Non pare anche a te, Daniel?

– Dici bene, irascibile Atanagi; e ti dirò meglio, ch’egli lo ricorda nel sembiante, ma ancor più in profondo nell’agire. Vero è che quel che l’uno espresse sulla tela, l’altro lo figurò nei versi, e questo fu un non so che adunar che fecero di nomi, e immagini, e cose, tutte tra lor distinte, ma nell’opera di costoro ammassate insieme, e stipate, e starei per dire quasi a musaico commesse: cetriuoli, pomi granati, uve passe e melloni, scodelle, padelle, ramaiuoli e libri, libri grandi e piccini, e lioni, liofanti, struzzoli e cammelli, scimie, trigri, serpenti e vispistrelli, scarpioni ed ogni spezie di menomi animaletti, e arrosti e smeraldi, bombarde e archibugi e centomila cose, delle quali alcune pochissime son quelle dette. 

– Già, Pan Daniel, perché hai scordato omini in bombetta, mangiafuochi, ventriloqui e pagliacci, illusionisti e acrobati, barometri e specchi, fagotti e frittelle, giulebbe e salamelecchi, torte, lanterne e pinnacoli, zuccheri filati, sbrendoli e piume, trombe e cappelli di carta, e cappelli di maghi e code di galli, plastiche e tacchini, cartapeste e anemoni, soprammobili, ferrugini, Indie e Conghi, castelli e maschere e bottoni, e ceroni, lucignoli, cocomeri, sardine, gelatine, ciondoli, ciniglie, stelle filanti e arlecchini… Io non so perché l’Arcimboldo dipingesse quadri, né perché li riempisse di tutte quelle cianfrusaglie, ma già che se ne parla ti chiedo, e vi chiedo a tutti e tre: avete idea del perché io scriva versi? E soprattutto del perché li riempia, stimato e stizzito critico, di tutte queste cianfrusaglie?

– Per ornamento? Per tradizione? Forse per giuoco? – Risponde a caso, a scelta, uno dei tre gesuiti.

– No, Cornacchie, per disperazione, ecco, e per salvamento. Perché ho paura, sapete, del Buio Pesto, del Vuoto, del Vacuo, del Puro Nulla che mi attende là fuori, la messa in scena finita. Infarcirlo di rancidi feticci, quel vuoto, riempire di nomi l’abisso, vestire l’ombra di stracci, son tutti trucchi, prevosti, trucchi per vincere l’angoscia dello spazio, attrezzi per tenere a bada la morte, la senza ginocchia, la figlia di Bruegel… a volte funzionasse… Ma perché non provate anche voi? basta poco: indossare, per esempio, questo portentoso cappello a punta, o questo gilè magico di Majakowskij…

– No grazie, mister Acrobata, non abbisognamo di tanto. Non abbisognamo d’altro, a dir vero, che d’indossare questi cappelli a spicchi, e questi vestoni di frati, con cui non solamente ci diportiamo con eleganza nello spazio, ma teniamo a bada la morte, e anche la teniamo a cuore, e a pregio, come dono del Signore: non fine ma prosieguo di spettacolo, non abisso ma cima altissima d’aprico monte, non vuoto ma pienezza di gloria, non Buio Pesto ma Luce Infinita… No, Ripellino, non basterebbe la tela di tutti i gilé di Majakowskij, giuntatavi quella di tutti i cappelli di tutti i maghi  del mondo per fare una sola falda del nostro cappello di gesuiti!

– Bravo Daniello! Quasi meglio del sermone del venerdì santo, a Parma – ricordi? – quando raccontasti della picciuoletta nave della nostra fede, zattera malconnessa di canne frolle barcollante nel periglioso pelago del mondo, tutto giorno esposta al vento del peccato, che senza posa soffia, e quando è dalla matta presunzione mutato in tempesta, rapisce il natante e lo conduce al disastro di balena, quando non alla perdizion di sirena. E c’incitavi però a non far naufragio, non mai allontanandoci troppo dal porto sicuro della Chiesa, e perciò aggrappandoci alla preghiera, che, dicevi, è come canapo di fibra robusta, e come arpione di politissimo acciaio…  ricordo ancora le parole, precise… Padre Lana Terzi non può fare a meno di così intervenire, ma il Bartoli non accenna a fermarsi.

– Questo per l’abito gesuitico. L’anima aristotelica, di poi, ci sicura anche di qua dal mondo non darsi alcun vuoto, e non esser dunque nostro compito riempirlo. Non mio e non tuo, Vanellino, ché quale mai stolto superbo bestione si assumerebbe un compito sì dismisurato alle proprie forze?

Non le mie insegne papali, non le deboli porte del tuo carrozzone ma neppure quelle dorate dell’enorme museo di Padre Kircher, per quanto le spranghiate, reggeranno mai alle lusinghe e alle raffiche del nulla. Diglielo, Atanagi, cosa avevi ammassato negli stanzoni del tuo museo, a Wurzburg: [si omette l’elenco], e tutto ciò nulla ostante non è valso a nulla. Già, perché non io, non tu, mister Acrobata, e neppure tu, Padre Atanagi, ma la Natura stessa ha avuto da Dio podestà, anzi precetto, di combattere il Vacuo, abbominato da essa quanto la disunione, e per la disunione il disfacimento dell’Universo. E non è mestieri di forcine, cappelli, provette, ciondoli e trucioli; e neppure di tutte quell’altre cineserie di Wurzburg: piuttosto, salirebbero sassi e macigni, come allodole, e precipiterebbero i venti e i fuochi; si spianterebbero le montagne dalle loro più fonde radici, e le selve, gli sprofondi del mare oceano e le bollenti arene dei gran deserti; le stelle fisse si schioderebbero dal firmamento; volerebbe in Cielo la terra e piomberebbe in terra il Cielo, sol che fossero necessari a riempire di sé un vacuo.

– E l’esperimento del Torricelli?

– Ohi! Ohi! Ohi! L’arcimboldico poeta! Mica scherza colle domande! E dire che doveva stare a guardare… Sarei quasi tentato di fermarmi, giusto per vedere come te la saprai cavare, caro il mio buon Daniello! ma ne ho abbastanza delle sterili polemiche coi moderni: a questa età, mi manca il tempo, e la pazienza, per rimettere in discussione le mie certezze. M’è assai più caro accompagnarmi coi sodali, e discuter coi simili.

Così dicendo Padre Kircher si allontana, traendo seco il Lana Terzi, antico discepolo e confratello, con lui serenamente discorrendo degli esperimenti pneumatici dell’eruditissimo Boyle, di cosa resti nei suoi vaselli dopo risucchiata l’aria, di cosa mai sian pieni il vuoto del termoscopio del Duca e i palloni che reggon la Nave Volante. Li si sente infine, di lontano, recitare insieme il Pater Noster.

– E l’esperimento del Torricelli? – Ripellino insiste – Non mi dirai che quella parte di cannello lì, sopra l’argentovivo – ed indica al Bartoli uno degli ordegni – è piena? Piena di che, Pan Prevosto? Forse che non è piena di quel vuoto tanto abbominato da Dio, dalla Natura e da Aristotele? Eppur non ho veduto niente che si sia schiodato di suo luogo per qui precipitarsi a riempirlo di sé: non firmamenti, non gioghi di altissimi monti, non fuochi ma neppure luminelli, né berlingozzi di Pasqua, né spiriti divini…

Come vuole il suo abito, il gesuita, non si scompone:

– Fallacia consequentis: non perché tu non abbia veduto una cosa, essa cosa non è; sebbene la cosa che non è tu non la veda.

Commistio, et magna confusio generis: non puoi mettere insieme spiriti e berlingozzi, ch’è come dire scienza celeste e scienza terrestre. Non al filosofo naturale, quale ti pregi tu d’esser in questo negozio, ma al teologo soltanto è consentito il dire degli spiriti divini, del loro allungarsi e distendersi fin qui sulla terra senza dipartirsi dal Cielo e senza punto aggrandire la sfera della loro determinata presenza ad un luogo (cfr. Euclide I.35).

A meno che non vogliam leggere significati nel tuo argomento non gli spiriti del Cielo ma quelli dell’acquavite: fallacia di divisione, ma tutto ciò nulla ostante ti saresti appressato al vero, forse assai più di quanto tu non creda, di certo più di quanto non volessi.

Quella parte del cannello vuota di argentovivo è infatti piena di un sottilissimo e per così dire incorporeo corpo, che taluni han denominato etere. E non dico quel tutto fantastico del Cartes, repugnantesi colla Natura e seco stesso, ma quell’altro, ottimamente pensato, che è aria in sostanza, e anzi il fior dell’aria, ch’empie il gran vano dei Cieli e vien giù disteso e continuato fino in terra. Ed è cosa purgatissima e d’inesplicabile sottigliezza, che sta veramente anche nell’aria di quaggiù, intorbidata e fecciosa, come gli spiriti dell’acquavite stan veramente nei vini, e son vini nell’essere. A questi aggiungansi gli spiriti del mercurio, che in quell’impetuoso sommuoversi ch’egli ha fatto precipitando giù nel cannello gli son svaporati di corpo. E in quanto sostanza sottilissima e quasi priva di corpo non mi fa gran meraviglia che tu non l’abbia veduta d’un tratto schiodarsi d’entro le viscere dell’argento vivo e precipitarsene fuori, a riempire di sé il vuoto del cannello.

E ch’esso sia dunque pieno non lo dico io soltanto, ma l’han mostrato al senso molteplici esperimenti condotti in varie parti d’Europa da certi savissimi Accademici, i quali hanno inserito nel vuoto dei cannelli, e financo in quello dei palloni, gli oggetti più svariati: oriuoli, campane, calamite, pesci, rettili, uccelletti ed altri piccoli animali. E gli animali si morivano, è vero, per via della rarefazione d’aria, ma la calamita tirava il ferro, la campana suonava e la ruota dell’oriuolo marciava, il che non potendo darsi in alcun modo nel vuoto, quel vuoto era pieno. Come disse bene Aristotile.

– Comodo, gesuita, Iddio ti scampa dal vuoto della morte, Aristotile da quello del Torricelli! Perdonatene, non ho potuto fare a meno di ascoltare i vostri interessantissimi conversarî.

La voce che parla appartiene ad un uomo in abito lungo, senza copricapo ma con sulle spalle un manto color della pietra, barba e capelli grigi. Sopravvenuto da dietro le spalle degl’interlocutori, si pone frammezzo d’essi, e fattosi terzo della compagnia prosegue con decisione.

– Quei tubi e palloni, gesuita, ha ragione il tuo amico, son propriamente ed indubitabilmente pieni di vuoto. E non è tutto. Come ebbi modo di osservare in occasione di un mio celebre scritto, e non v’è da dubitare che il Berti e quei valenti sperimentatori romani abbiano messo in opera la loro esperienza spinti da questa e da altre mie acutissime annotazioni che non è qui mestieri ripetere, il fatto medesimo che non sia possibile, né con trombe né con altre macchine che sollevin l’acqua per attrazione, farla montare un capello più di diciotto braccia è esso stesso da imputarsi ad azione del vuoto. Che altro è infatti il cilindro d’acqua, che sta sollevato, se non una corda, o verga, d’acqua, che avendo la sua attaccatura di sopra, allungato più e più finalmente arriva a quel termine, oltre al quale, tirato dal suo già fatto soverchio peso, non altramente che se fosse una corda, si strappa? E cos’è che tiene congiunte le parti dell’acqua, se non la repugnanza del vacuo? Se dunque diciotto braccia è la misura dell’altezza limitatissima, oltre la quale la colonna d’acqua si strappa, che è come dire che le sue parti si separano, essa sarà anche la misura limitatissima della resistenza del vacuo, la quale otterremo tutta volta che noi peseremo quell’acqua.

– E il Torricelli?

– Il Torricelli è un buon giovane, ma non andrà lontano con quella sua idea della pressione. Vacuo, signor poeta, forza del vacuo! Ha mai provato a staccare due lastre di politissimo marmo, mantenendole equidistanti? Impossibile, mio caro, ella troverà anzi che la superiore solleverà, e si tirerà dietro l’altra, e perpetuamente la riterrà sollevata, ancorché assai grossa e grave.

Il Torricelli le direbbe ch’è per via della pressione dell’aria, io le assicuro invece ch’è per via dell’orrore del vuoto che ha la Natura nel dover ammettere, se ben per breve momento di tempo, lo spazio vuoto che tra quelle due lastre rimarrebbe avanti che il concorso delle parti dell’aria circostante l’avesse occupato e ripieno.

– Ma allora lei pure, signor scienziato, è un aristotelico?

– Signor filosofo; e lei è un incompetente. Aristotele afferma che il vuoto non esiste. Io dico che sì, che quando lei pervenga a separare le lastre, inclinandole, tra di esse resterà qualche vacuo, almeno per brevissimo tempo, cioè per tutto quello che passa nel movimento dell’ambiente, mentre concorre a riempire il vacuo. Converrà dunque dire che, pur per violenza o contro natura, il vuoto tal’or si conceda (benché l’opinion mia è che nessuna cosa sia contro a natura, salvo che l’impossibile, il quale poi non è mai).

– Non mi convince, Daniel: non veste di nero ed è senza cappello ma secondo me questo signor filosofo è uno dei vostri.

– Non credo abbia in particolar pregio l’abito gesuitico, e tuttavia ha dell’aristotelico, è vero. Ha del resto affermato, e con matematiche dimostrazioni dimostrato, che le comete sono fenomeni puramente ottici, dovuti ad esalazioni terrestri, come già diceva ai suoi tempi il Maestro. E pensare che il nostro Orazio, Orazio il gesuita non il poeta, aveva con altrettanto matematiche dimostrazioni dimostrato ch’esse son corpi celesti, vaganti oltre il cielo della Luna, come è facile controllare col metodo parallattico di Tychone…

– Tychone, Tychone… Tychone ha fatto, Tychone ha detto… Tychone ha detto solo stupidaggini, ed era anche un geometra mediocre, oltre ad averci il naso finto.

– Tu odi Tychone. Sei invidioso, ecco tutto. Mi son sempre chiesto, in tanti ce lo siam chiesti: ma perché prendersela tanto col buon Padre Orazio?

Devi sapere, Ripellino, che in occasione dell’apparizione di tre comete, correva l’anno 1618, si tennero al Collegio Romano, durante il periodo di sospensione natalizia dei corsi, alcune affollatissime riunioni dedicate alle comete, nel corso delle quali alcuni nostri docenti lessero certe lor interessantissime lezioni, oltre ad un gran bel poemetto in esametri, tutto sulle comete. Anche il Padre Orazio, da buon matematico qual era, fece la sua bella lezione, e tanto essa piacque che fu mestieri renderla pubblica, sebbene anonima, qualche anno dopo. Piacque forse perché, pur gesuitica, non era però aristotelica, né mai polemica: tranquilla, piuttosto: una tranquilla relazione di fatti, interpretati nel contesto delle teorie di Tycho Brahe: niente di personale, niente di offensivo, il signor filosofo qui presente non veniva anzi neppure menzionato.

– Io neppure menzionato e quel nasone di Tycho ad ogni pagina chiamato a dir la sua; ma che dico ad ogni pagina, ad ogni rigo, e sempre a sproposito!

– Insomma, fatto sta che senza motivo apparente Padre Orazio venne scelto come bersaglio polemico dal signor filosofo, il quale lo fece dapprima ricoprire di ingiurie scientifiche da un proprio allievo e quindi, alle repliche non più così morbide del nostro, rispose con grande abbondanza e gratuità d’insulti, anche personali. Ce ne fu da riempire un libro. Un gran bel libro, bisogna ammettere: prosa elegante e retorica inappuntabile: pensa, Ripellino, ch’esso è tuttora mantenuto dagli scienziati a manifesto della lor disciplina.

Ai tempi l’intesi, come tutti del resto, qual esso si presentava, e cioè quale attacco diretto al nostro ottimo, ma non così pericoloso matematico. Sorsemi di poi il dubbio, e penso averne avuta qui conferma, che scopo ultimo dell’azione infangatrice non fosse l’apertamente, grossolanamente criticato e in sé fallibile Orazio, bensì il subdolamente censurato Tychone: il grande Tychone, l’infallibile Tychone, il cui crescente prestigio occorreva demolire; anche a costo, e dimmi se sbaglio, di negare la realtà delle comete. Anche a costo di passare dalla parte di Aristotele…

– Sempre meglio Aristotele che Tychone! E tu pensa ch’egli ebbe anche l’ardire di scrivermi, da quel suo ridicolo castello… Io daddovero non risposi.

 

Terza Stazione: Dell’Orologio 

Se la Fortezza di cui si narra possedesse anche una torre, potrebbe ben ricordare Uraniborg, la dimora-osservatorio di Tycho Brahe nell’isola di Hven, in Danimarca. Ciò massimamente in tempo di nebbia, e di novembre, quando solo la solida costruzione e parte del suo sinuoso parco emergono imperturbabili dal pelago di vapori umidi e spessi della valle circostante. In certi tempi di ancor maggiore caligine non si discerne neppure la fortezza, né si discernerebbe la torre, se torre vi fosse, e la disconfortanza di un cotale stato bene la sa chi mai nell’alpe lo colse nebbia.

In questi tempi d’inafferrabile foschia il parco è percorso anche in pieno giorno da incessanti sequele di lampioni, dei quali dagli altissimi pali che li recano giunge a terra, sui viottoli sdrucioli e sui labili camminatori che vi arrancano, un fiochissimo lume.

– Sai, gesuita, la fugace apparizione di questi strani personaggi, l’argentea brevità derisoria dei loro iperbolici passaggi, quasi comete, o labili porcellane disposte ad infrangersi di tra le fioche fiamme autunnali di questo parco posticcio, m’han posta in mente una fantasia: hai presente l’orologio animato di Maestro Hanus, a Praga?

– L’orologio a lui attribuito, intendi?

– Quello: quello sulla torre del Municipio della Città Vecchia, con le figurine degli apostoli che appaiono, allo scoccar d’ogni ora, a due finestrelle azzurre: Paolo predicatore col libro, Simone falegname colla sega, Pietro pescatore colla chiave, Matteo boscaiolo coll’ascia, Giacomo filatore col mazzuolo…

– … Luca volatore coll’occhi d’Argo.

– Dico sul serio, Daniel. Pensavo: questa è una fortezza: una fortezza senza torre. Ch’è come un gesuita senza cappello. Ci vorrebbe una torre, un torrazzo nero che di sera si riempia di nerissime taccole che gridano nella nebbia, e sulla torre un orologio animato. Ho già pensato a tutto: alle figure, da farsi in grandezza naturale, in legno buono e in istile barocco, e alle meccaniche.

Come nell’orologio di Hanus, ci son due finestre, di norma chiuse, che s’aprono allo scoccar di ogni ora. Solo però da noi le figurine non si limiteranno ad apparire, così, girevoli e fuggevoli nel vano delle finestre. All’uopo, non saranno anzi finestre ma porte: due porte che s’aprono e da ciascuna porta esce una figurina: una da quella di destra, una da quella di sinistra, e ciascuna percorrendo un quarto di cerchio vanno a percuotersi incontro, sin quasi al cozzo. Qui giunti si rivolgon certi epiteti, che poi ti dirò, e ciascun dei due voltando a retro, tornan per il lor pezzo di cerchio; un po’ come fan l’onde giù dalle mie parti, quando l’una si frange in quella in cui s’intoppa, e con grand’urli.

– Quasi una ridda infernale.

– Quasi, appunto. Resta da studiare materialmente il meccanismo: ingranaggi, ghiere, ruotenti, bielle, binari, scambi e livellette, ma così ad occhio non dovrebbe esser troppo complicato. Quanto alle figure, se vogliamo un incontro all’ora e le coppie sono fisse, ce ne servono dodici, di coppie, e dunque ventiquattro personaggi. Che son tanti. Altrimenti, variando con giudizio gli accoppiamenti, possiamo ottenere dodici diversi scontri con soli sette personaggi: tre ad una finestra e quattro a quell’altra. I tre uscirebbero più di frequente… ma a questi dettagli si pensa dopo. Quanto ai soggetti, infine, non saranno apostoli, né evangelisti, ma qualcuno di più mobile: uomini adatti allo scontro, inclini all’urto: Tycho Brahe e il cureton fantasque, per esempio.

– Intendi il signor canonico Fleury?

– Lui. Lo conosci?

– Di nome, credo me n’abbia parlato giustamente il Padre Kircher, peccato ora se ne sia andato, a proposito di certi suoi contributi sui geroglifici. Pare gli avesse proposto, il Fleury, della roba grossa, “du pur manuscript pharaon”, a dirla francamente. Ma non so poi come sia andata a finire. Con Tycho, però, dubito si siano mai incontrati.

– Li facciamo incontrare noi: pensavo appunto una cosa del genere: Tycho esce da sinistra, con indosso l’armatura di cavaliere e in una mano la sfera armillare; nell’altra una spada, che non si sa mai. Ah, e ovviamente il naso d’oro.

– D’oro o forse d’argento, come sostengono alcune fonti attendibili. In ogni caso pare che il grosso della massa fosse di rame.

– In ogni caso questo poco c’importa: lo facciamo fare di una lega qualsiasi, basta che da lontano abbia riflesso di metallo. Insomma, mentre Tycho procede da sinistra, da destra avanza il cureton, ciascuno sulla sua rotaia, fino a trovarsi l’uno in fronte all’altro, nel mezzo. Ah, dimenticavo, il curato, piuttosto corpulento, indossa la tonaca e sopra la tonaca varie decorazioni della Legion d’Onore e un grosso crocifisso in avorio, che spenzola da una lunga catena. Deve vedersi bene che oscilla e sdondola ad ogni passo. In capo porta un cappello di rafia, in una mano un’immensa carta sottomarina e nell’altra il corno da caccia.

Tycho è abituato alle stravaganze di corte, ma ciò nonostante deve mostrarsi un po’ perplesso di fronte alla mise del parroco, e forse più ancora di fronte alle di lui parole: “È finita, Tychone, la stagione delle eclissi, delle comete, degli oroscopi… È giunto il tempo di scendere… dalle supreme altezze dei cieli agli sprofondi abissali dei mari… È urgentissimo, signor astronauta! Un’astronave marina… una campana da palombaro… giù… giù sotto, fino a ottocento… novecento… milleseicento metri!… Tutti i tesori di tutti i galeoni dell’Armada… Ho qui la mappa, precisa al centimetro…” e gli squaderna la carta marina, enorme, sotto il naso finto: “Io metto la carta qui presente, e anche i denari” ed estrae soldi dalle tasche della tonaca, molti soldi: “Tu metti il mezzo… la campana… poi si divide… Il sedici per cento, Tycho, il sedici per cento di tutto quel che tiriamo a galla… Pensaci… è un affare…” – “Non mi interessa, eccellenza”. Qui bisogna fare che Tycho gli risponde con gentilezza, in un primo momento offrendosi persino di aiutarlo, facendogli il nome di un collega: “Se si tratta di fare affari costruendo ordegni meccanici, le posso però venire incondro procurandole l’indirizzo di uno bravo che conosco in Italia: pensi lei che con sola la descrizione sommaria, e di seconda mano, è arrivato a ricostruire l’occhiale di veder lontano. E ancor meglio dell’originale, quello dell’Olandese; di certo meglio di quello dei Francesi. Ha sempre bisogno di denaro, ha famiglia, se lei sarà più fortunato di me, magari le risponderà anche… ma non gli dica, mi raccomando, che la mando io, giacché credo di non andargli troppo a genio.” – “Non voglio nessun occhiale di veder lontano…” – “ Ma si vede nel cielo, fino oltre le stelle…” – “E io ripeto: non nel Cielo, signor astronauta, non nel Cielo… nel Cielo c’è Iddio… i Santi… Martiri… Troni e Dominazioni… Non nel Cielo ma nel Mare Oceano, giù, giù, verso il buio e l’umidore del fondo occorre che cerchiamo la buona ventura, il tesoro nascosto, la fama, la gloria… Non l’occhiale, amico, la campana… la Campana Sottomarina, amico, la Campana del Palombaro Martire Marino!… La Cam-pa-naaaaa… amico… Vedi? Vedi questa carta?… questa mappa?” – “E tu vedi questo naso?… questa nappa?” Tycho indica a Fleury, che va massaggiandosi e pizzicandosi sempre più ferocemente il mento, il metallico naso posticcio: “Sai come l’ho perso?… Quello vero? In un duello, con un cavaliere danese che mi voleva convincere a far qualcosa che io viceversa non avevo intenzione alcuna di fare.”

A questo punto passano alle male parole, ma non è il caso di perderci il capo, perché tanto da sotto non si distinguono se non accenni, ed insoliti accenti nelle voci. Basta sia chiaro che la situazione va rapidamente degenerando e prima che Tycho, ormai ben più avvezzo a mirar di specola che a tirar di spada, abbia posto mano al ferro, si vede il cureton che s’impenna e in un balzo gli è al collo. Tycho fa per colpirlo ma Feury s’inginocchia, si prosterna, si batte il petto e fa una preghiera, poi un segno di croce… due… mille segni di croce. Tycho abbassa la spada e subito il canonico, come un pupazzo a molla, gli si rifà incontro: stranfia, starnuta, grugnisce e ruggisce e gl’infila le dita nel naso d’oro, e tirando come un forsennato cerca di strapparlo. Il gesto inatteso scuote l’astronomo, rinovellandogli nell’animo l’antico gusto sopito del duello. Egli assesta allora al religioso, ad ogni buon conto, dapprima un poco ortodosso, e poco rovinoso colpo di piatto, collo spadone sul capo, come di proisagogico avvertimento, e lo farebbe senz’altro a pezzi se il meccanismo non imponesse proprio in quel mentre al curato, e simmetricamente allo scienziato, un movimento di rotazione e successiva traslazione, e conseguente allontanamento, lungo gli opposti rami della circolare rotaia a cremagliera. Solidali all’ingranaggio, i due si lasciano docilmente ricondurre alle rispettive porticine, il cureton soffiando con tutte le sue forze nel corno da caccia.

Facciamo conto che ciò accada alle undici; alle dodici si incontreranno invece il barone di Charlus e Gonzalo Pirobutirro. La dinamica è la medesima: da sinistra esce Gonzalo, alto della persona, un po’ curvo e appesantito dal cibo e dalle umane vicende. Vestito appena decentemente, porta bretelle e scarpe accollate, nerissime, di capretto; in mano reca una valigia di cartone giallo. Dall’andatura deve risultar manifesto ch’egli non compatisce agli umili.

All’incontro, da destra, avanza il barone, anch’egli alto e corpulento ma più impettito, compreso in un completo molto scuro, molto elegante e molto sobrio. In una mano reca un cappello a cilindro screziato, nell’altra un bastoncello ficulno, con cui si percuote macchinalmente il polpaccio. Dacché Charlus non ama salutare per primo, dev’esser Gonzalo che, con un certo garbo, con espressioni brevi, esatte e cordiali interloquisce il barone, il quale si limita, in principio, a rivolgergli, per subito distoglierlo, uno sguardo rapido e dilacerante. Indi gli porge la mano, anzi due sole dita della mano, in un guanto di pelle scura, mentre coll’altra mano non resta di battersi ritmicamente il bastoncello sulla gamba: “Uhm… Pirobutirro… Pirobutirro… Ah! Pirobutirro della Torre d’Alvernia!” Le ultime parole son pronunciate da Charlus su di un registro di baritono, con tono sprezzante, quasi con scherno: “Noi pure…” Sul noi la voce del barone s’impunta, per proseguire poi con l’andamento fluido di un legato e la naturale, incoercibile, quasi plastica eleganza del dire dei nobili: “Noi pure abbiamo taluni possedimenti in Alvernia. Vedete quel castello laggiù?” Ed indica a Gonzalo un invisibile punto oltre il verde della costa, dopo il cilestro dei laghi e dei colli, al di là della ferrovia.

Gonzalo tace, probabilmente non ascolta; osserva oltre l’inferriata gialla il bosco e brandelli di pioggia, e nebbia sulle foglie. Sente, nella scontrosa foresta autunnale, il passo del cervo e sul suo volto si affaccia un accoramento, un’opacità stanca che Charlus ascrive senza meno a cattive abitudini del soggetto: eccesso d’introspezione, difetto di relazioni sociali, quasi totale assenza di commerci carnali: “Guardate, quale tripudio di nebbie, foschie, brume color pervinca! e che gioghi di monti! che scorrer d’acque lustrali! che sottigliezza d’aria purgata, nel cielo, e che biancore di strade ringhiaiate, in terra! A che pro quel vostro ostinato rinchiudervi in camera a leggere, o peggio a scrivere, tutto solo?” Pur non apprezzando la particolare confidenza del barone, e in generale detestando ogni tentativo di sconfinamento dell’altrui mondo nel suo, Gonzalo non reca a risposta che una quasi impercettibile, neutra, alzata di spalle. Ma Charlus, non pago, passa dall’intromissione importuna all’ancor più aborrito non richiesto consiglio: “Venite a fare un giro in automobile con me, uno di questi giorni. Guiderà il Topi, Topi Terenzio. Lei conosce il Topi? Un diavolo! Un diavolo e un autista incantevole, un vero artista del pistone, credete a me!” – “Vi credo, barone, e vi ringrazio. Ma vedete, domani devo… insomma, dovrei… non è possibile… no, non è proprio possibile.” Per quanto seccato, Gonzalo resta cortese, solo si lascia sfuggire un sospiro soffocato. – “Avete timore dell’automobile?” Charlus è comprensivo, pensivo, quasi affettuoso, Gonzalo non apprezza ma ancora tace. – “L’automobile, mio buon Gonzalo, l’automobile non è come la carrozza: l’automobile non la sente ragioni, e non consente misteri!” – “Non è l’auto, barone” la contrarietà che va prendendo forma e forza nell’animo dell’hidalgo non giunge ancora tuttavia a manifestarglisi nel volto, che resta calmo, solo un po’ perplesso – “Allora è l’autista?” – “L’autista, il vetturale” Ora la contarietà vien fuori, vira anzi visibilmente a collera: “L’autista, il vetturale, il cocchiere, il cameriere e il falegname, il portalettere e l’affossatore comunale, il parrucchiere, il parrucchiere dei cani, il peone e il peone zoccolante, il villico, il coltivatore di cicorie e l’allevatore di polli… Tutti pervertiti, i polli, e tutti giulivamente bischeri, i rustici figli del popolo” – “E perché diavolo?” Charlus è sempre sereno nel dire, solo il ritmo percussivo del bastoncello è lievemente alterato: “Che vi hanno fatto di male?” – “Di male?!” Gonzalo è invece decisamente alterato, nel sembiante e nella voce: “Tutto! Senza criterio, senza discernimento, senza alcun fondamento!” – “E pure con certi occhi di cervi, con certi gesti d’aurighi, autoritari e virili, con le mani ruvide e la pelle cotta dal sole… Autisti, vetturali, cocchieri, conducenti d’automobile e di omnibus, controllori e bigliettai, inservienti di wagon-lits, fattorini e camerieri, portieri d’albergo, di giorno e di notte, domestici, tennisti e soldati, garzoni di sartori e di lattai, apprendisti giardinieri, addetti ai cani e addetti ai vitelli da macello, uomini di fatica e villici, contadini e loro rustica prole: come gli atleti della Grecia, Gonzalo, come i discepoli di Platone…” – “Discepoli degeneri, cane il diavolo!, rincoglioniti da generazioni di granturco e migragna! Discepoli belinoni e bardasse!” Il tono della voce di Gonzalo è decisamente sgradevole, oltreché elevato, e l’espressione di fredda collera dipinta sul suo volto si fa più minacciosa. Strizza i mascelloni, cigola i denti come un commissario di pubblica sicurezza: “Non so che farmene dei discepoli scemi, che si rovistano nel naso e si metton la matita dentro gli orecchi. Non chiedo altro” e qui la voce è d’un tratto più malinconica “che dedicarmi ai Maestri, ai miei libri postillati ai margini…” – “Postillare testi, educare amaranti… Ersatz! Caro Gonzalo!” Charlus sa ch’egli ha origini e un certo penchant teutonici: “In realtà noi ce ne fottiamo dei libriccini, dei fiorellini e delle piantine: non è forse vero, vecchia canaglia? E assai preferiremmo dedicare il nostro tempo di anziani signori ad un giovane arbusto umano, ad un bel tomo in carne ed ossa…” Nel dire ciò il barone pizzica con una mano il mento ben rasato di Gonzalo.

– Voglio sperare che il provvido tuo meccanismo intervenga in tempo ad impedire il resto.

– Non t’inquietare, Padre, ché alla reazione stizzita di Gonzalo, retrattosi ratto, qual tasso pustulato dall’urtica, o minacciato di presso dal serpe, Charlus s’avvede del proprio errore: error di giudizio precipitato. Ma quel che sarebbe ad altri motivo serio di imbarazzo essendo per contro al barone causa suprema di collera incontrollata, egli scarica su Gonzalo non le scuse più contrite ma le urlagioni più sconsiderate, in un fortissimo quasi d’orchestra, ch’egli vada precipitando, l’orchestra, alla rovina sonora col suo agitevole bastoncello di direttore folle. Sia che Gonzalo intenda a minaccia, minaccia cioè di percossa reale, la bacchetta brandita dal barone, sia che semplicemente la sua propria pazienzia abbia attinto il limite estremo, oltre il quale c’è solo il buio pesto del furore cieco, di fatto egli s’avventa sul cappello a cilindro di Charlus e strappatoglielo di mano lo getta a terra e su di esso s’accanisce: lo schiaccia sotto i piedi, lo calpesta, quasi fosse un orologio d’oro.

– D’oro o forse d’argento, come sostengono alcune fonti attendibili. Quando non addirittura una volgare sveglia.

– Di questo poco ce ne cale, quel che importa è che Gonzalo continua a pestarlo con forza, fino a che lo lacera e irrimediabilmente lo sfascia, incurante dell’ininterrotta ingiuriosa vociferazione del barone. Solo a questo punto interviene il meccanismo, giusto mentre la torre batte dodici enormi tocchi.

– Undici, dodici… ne mancano ancora dieci, di incontri.

– Otto, vorrai dire, perché alle due Tycho astronomo con la spada incontrerà Charlus barone col flabello, e alle nove Gonzalo hidalgo colla valigia intopperà in Fleury curato colla mappa. Pensavo che astronomo e barone potrebbero intavolare tutta un’interessante discussione fisico-biblica sulla solidità e reale composizione dei Cieli: mentre, molto seriamente, Tycho cerca di spiegare a Charlus come sia di fatto impossibile collocare materialmente nel Firmamento il Padre Eterno, il Verbo incarnato, e con essi la di lui madre e il di lei sposo, e tutti i profeti, apostoli, angeli, santi, martiri e dottori, il barone non resiste e con gesto ratto ed importuno gli pigia il naso finto: “Pif!”. Di qui la rissa. Lo scontro tra Gonzalo e Fleury nasce invece più banalmente da uno spiacevole fraintendimento: crede infatti Gonzalo che il canonico gli stia domandando soldi per la realizzazione della campana.

– Sì, ma gli altri otto?

– Per cominciare, ci mettiamo tu ed io: Daniel saggiatore col barometro e Angelo poeta col termometro. Al solito, io muovo dalla porticina di sinistra, tu da quella di destra, ma mentre io compio il mio tragitto con un andare mesto, con aria pensiva ed una certa apparenza di distaccanza, parlando tra me e me parole desuete e quasi non mi accorgendo di te, l’occhio affiso al foglio coi miei scrivendi versi, tu avanzi invece con una certa baldanza, e collo sguardo acuto dell’occhio, e più ancor dell’animo, subito mi riconosci, e m’interloquisci: “Poeta!”. Io non ti ravviso subito, per via del fatto che sei vestito da frate, colla tonaca nera e nere scarpe lucidissime, in capo il cappello a spicchi, però hai in mano un barometro e nelle tasche appunti d’idraulica: “Sai perché reco meco siffatti ordegni?” ti riferisci appunto al barometro e ad altri simili aggeggi che hai sotto il vestone: “Per farci un esperimento.” E mi ragguagli, col fervore del convertito da poco, sullo stato delle cose in merito alle recenti ricerche sulla pressione atmosferica, il vuoto nei cannelli e l’acqua nelle tubazioni: “Vedi, qui segna ventiquattro: ventiquattro dita grosse, che son poi ventisette delle piccole, perché siamo in cima al monte.” Io ti ascolto prima con attenzione, poi vado mano a mano perdendomi in certe tue labirintiche didascalie omiletiche, con che intendi, parmi, illustrarmi i pregi intrinseci dell’esperimento, pratici ed etici.

– Di esperimento, mio buon Ripellino, è lastricata la strada per la conoscenza. L’esperimento, Vanellino, è…

– … è come canapo di fibra robusta, e come arpione di politissimo acciaio. Lo so, Padre, ma il bello viene adesso, perché tu mi dici che sei qui per via dell’aria purgatissima, e leggiere, che trovasi sui più alti gioghi di monti, e che fa all’uopo del tuo esperimento, e io ti rispondo che sì, anch’io son qui per l’aria purgatissima, e curativa, che fa all’uopo del mio infinito male. E del mio male prendo a lagnarmi. “Tu ti lagni troppo, poeta, e a sproposito.” Mi rispondi tu, e mi fai l’elenco delle sofferenze sofferte, e non perciò lagnate, dai tuoi confratelli martiri all’Indie: da sotto si deve vedere bene che conti sulle dita: uno: quello scorticato vivo; due: quello colle cannucce nell’unghie; tre: quello usto… e così via.

– Stai commettendo un errore, Ripellino, e non val dunque la pena che sprechi il fiato oltre. A parte che hai scordato quello trinciato vivo in 1600 pezzi, ma questo è il meno: il fatto è che tutta questa tua costruzione è inconsistente, fallace, dal momento che tutto il tuo ragionamento si fonda su di un equivoco, una premessa falsa. Tu supponi infatti che ci lascino uscire dalle nostre porticine, tu coi tuoi versi e il tuo termometro, io coi miei trattati e il mio barometro, ma sai bene che non è così. Nessuno comprerebbe mai un orologio con dentro le figurine del Cristo col piccone e la lanterna, il Turco con le rose, Tycho con le pinne e gli occhiali, Giuda con la falce, Marta col martello… Suvvìa, Abellino, lo sai bene che abbiamo i nostri simboli, il nostro pubblico: viviamo dentro caselle da cui non ci è più permesso d’uscire. Tu sei uno slavista, e pedante; io sono un gesuita, e barocco. Dunque rivedi i tuoi piani, commissiona due nuove belle figurine di legno: Daniel gesuita col breviario, sul pulpito, e Angelo slavista col crivello, sulla cattedra.

–  Va bene, questi due s’incontreranno alle cinque del pomeriggio; ogni pomeriggio alle cinque. Poi però facciamo che entri un errore, un errore sistematico: ogni notte, sempre alle cinque, tu esci col cappello a spicchi e il robone e ne estrai però il barometro, come dal cappello di mago e io sotto la giacca grigia indosso il vecchio frac che sa di muffa, e sotto quello il pigiama con le brache di panno e certe calze paonazze con fili d’argento, e ancora sotto il termometro. Tu, ch’eri uscito con barocco fragore, ti cheti, e con moto equabile, con passi esatti di scienziato, vieni verso di me. Io, ch’ero uscito con professorale cipiglio, e con passettini precisi, m’accaloro e con grandi falcate di goffa pavana, gonfiandomi come una rana, ti raggiungo festante, le braccia tese nell’aria, indirizzandoti saluti adorni e pomposi. A questo punto tu mi mostri, e compitamente spieghi, il tuo esperimento, mentre io ti grido forte la mia pena, il mio stolido e farsesco affanno. Poi la musica: cimbali e trombe, tamburi e nacchere e il fragore di una fanfara in burrasca, e come i contadini rosa delle casette segnatempo ci sorridiamo, a turno c’inchiniamo e tu mi inviti alla danza: “Coraggio…

– … coraggio, signor Vanellino, dimentichi, balli con me il prossimo tango”. Ma sono solo sei, ne manca ancora uno.

– Settimo mettiamo Gardel.

– Il tanguèro?

– No, il Comandante.

 

Quarta Stazione: Lavoro d’invenzione

Dove s’incontrano altri strani personaggi

 

– Perdonatene, non ho potuto fare a meno di ascoltare i vostri interessantissimi conversarî.

– Un altro!

– Non è usuale ricever visite, di gente da fuori, intendo; dunque quando ciò accade ci facciam tutti, si può dire, alquanto curiosi. A ciò aggiungasi che ancor meno usuale è il ricever visite di religiosi, e di religiosi che sanno di scienza, oltreché di dottrina. M’interessava in ispecie quel che lor signori dicevan del vuoto oltre il Mondo. S’eglino parlavan per metafora, allora ignorino pur le mie vacue parole, ma se, come parvemi poter giudicare, le lor parole non eran da intendersi in senso figurato, allora mi permetto di dissentire. Il problema, mi consentano, è un falso problema, e segue dall’aver posto la questione in termini improprî. Se non erro, si domandavano cosa c’è di là del Mondo. Ai miei tempi la domanda era formulata in forma pittoricamente più efficace: “Se un uomo si trovasse presso il limite esterno del Cielo, potrebbe egli stendere il suo braccio al di là?” La grammatica dice che in ambo i casi le formulazioni fanno impiego di locuzioni faragginose, termini vaghi, e che chi ponga siffatte domande non dice di fatto nulla, le sue parole essendo infine prive di senso. Più o meno come se costui domandasse: “Avete visto l’uomo ch’è l’asino?” Com’è impossibile che ci sia un uomo ch’è un asino, così è impossibile che ci sia un luogo oltre il Cielo, vale a dire oltre l’Universo, che mi significa infatti il Tutto.”

– La ringraziamo per la precisazione, signor… signor?

– Guglielmo. Guglielmo d’Alvernia.

– Già

– Combinazione stavo discutendo di questioni assai simili col mio giovane amico, qui, il signor Pietro, Pietro d’Alvernia, il quale sostiene d’avere inventato il termometro, o termoscopio. Si parlava in definitiva anche noi del vuoto, vale a dire dell’orrore che la Natura mostra per esso. È pensando a ciò che gli è venuta l’idea, giacché è un tipo pratico, a differenza di me, che tendo a tenermi un poco troppo sulle generali. Gli stavo appunto spiegando perché, se accettiamo, e non possiamo far altrimenti, l’idea dello horror vacui, dobbiamo allora anche accettare che tra Dio Creatore e l’anima razionale ci siano un certo numero di intelligenze pure, per quanto create; altrimenti ci sarebbe un vuoto, ma ciò lo abbiamo appunto escluso.

Non credo che Pietro apprezzi molto questa mia teoria, ma del resto io non apprezzo, e non approvo minimamente, la sua propensione astrologica. Va bene che per il momento gli è riuscito di applicarla, in modo coerente, soltanto alla geologia, e non si trova dunque in pericolo di eresia. Forse di erosione Ah! Ah! Ah! Mi piace ogni tanto sdrammatizzare l’argomento indigesto con qualche facezia, vero Pietrello? Lo chiamo così perché e giovane, ancorché sveglio. L’altro giorno, si figurino, mi dice: “Sai, Guglielmo, pensavo all’esperimento di Filone di Bisanzio, quello della candela nel vaso” – “Ma non era di Averroe?” faccio io – “L’idea però è di Filone” – Pietro sa un sacco di cose. Ad ogni buon conto l’esperimento è così: si prende un vaso di bocca stretta, gli si mette dentro una candela accesa e poi lo si attuffa rovesciato in una vaschetta d’acqua. Quando dopo un po’ la candela si spegne, l’acqua sale nel vaso ben oltre il suo livello naturale, e ciò per non lasciare alcun vuoto.

– Ma somiglia all’esperimento del Torricelli!

– Torricelli chi?

– L’Evangelista

– Mai sentito; però Pietro è stato allievo di Tommaso.

– L’apostolo?

– No, il santo. E in ogni caso: “Bene” gli dico io: “E con ciò?” – “Con ciò, io ho osservato che a questo punto, se scaldo il sotto di quel vaso, che ora sta sopra, l’aria dentro si rarefà, e spinge giù l’acqua. Viceversa, se lo raffreddo, l’aria si condensa e l’acqua risale. Lo chiameremo grecamente termometro, o termoscopio”.

– Ma questo quando è successo?

– Mah, sarà stato intorno agli anni cinquanta: milledue e cinquanta e qualcosa, ora non ricordo con precisione.

– E poi?

– E poi cosa?

– L’ha brevettato, il termometro?

– Non so: “Pietrello, l’hai brevettato, il termometro?”  Dice di no. Cosa vuole, è pigro; finché si tratta di pensare, progettare, inventare, come dicevo prima, è un drago. E mica solo curiosità, cose oziose, no, roba pratica, anche, al limite, roba utile altrui. Poi però, non appena si tratta di realizzare, insomma, di farci su qualche pesos, allora il cervello gli s’intorpidisce: un’accidia, mi credano, uno stallo della poiesis… forse lo spaventa il lato pratico: burocrazie, permessi dei superiori, richieste di fondi e d’incontri coi responsabili, diciamo che fatica ad interfacciarsi col mondo del lavoro.

– Interfacciarsi?

– Lo dice lui; inventa anche le parole. Quando gli manca un termine per dire una cosa, ne inventa uno: gestrologia, termometro, interfaccia, batiscafo… 

– È tipico degl’inventori di genio impigrirsi al dunque – è ancora Ripellino che interviene – ma proprio per questo ci son persone che di ciò si occupano di mestiere: di mettere a punto gli aspetti materiali della faccenda. Qui al sanatorio abbiamo il signor Courtial, per esempio: lo vede là su quella panchina, che parla con quel tipo alto e secco, con la barba, gli occhiali e l’espressione malinconica?

– Ugazio!

– Lo conosce?

– Adolfo Ugazio, di mestiere geometra, ma didentro è senza meno un inventore. Solo non ha mai inventato niente. Cioè, non ha mai messo in atto alcuna delle sue invenzioni, e cito solo il frullino impazzito, la pentola ad ultrapressione, per friggere coll’acqua, e la schiuma di carta. Un tempo eravamo amici, ci si trovava sempre a giuocare a poker: io, Ugazio, Marietto e Pietrello. Bei tempi!

– E Courtial?

– Courtial cosa?

– Lo conosce?

– Di nome. Me ne parlò se ben ricordo il povero Fleury.

– L’abate Fleury? L’autore della monumentale Storia Ecclesiastica? – Ora è il Bartoli a parlare.

– No, il canonico Fleury, autore più che altro di furti. Furti e truffe ai danni dei parenti, dapprima, poi delle parrocchie, delle diocesi, delle Dame di San Vincenzo e delle Visitatrici di San Giovanni Nepomùceno. Fui io stesso, mentre ero vescovo di Parigi, a richiederne l’internamento. Per il suo bene, s’intende. Anche lui un inventore di genio, il povero Fleury, ma lui non era pigro, no, piuttosto direi ch’era avido. L’ultima sua trovata, l’ultima prima dell’internamento, fu quella della campana sottomarina: una specie di batiscafo che voleva costruire per scandagliare il fondo dei mari, al nobile scopo di recuperare i tesori di tutti i galeoni affondati. Cominciò infatti coi soldi dell’affondato Nepomùceno: un furfante, il buon Fleury, ma di classe.

– Anche il mio ospite, qui, il Padre Bartoli, rischiò d’annegare, per affondamento di nave.

– Padre Bartoli il gesuita?

– Lo conosce?

– Di nome. Me ne parlò se ben ricordo il buon Padre Lana, dottore enciclopedico e anch’egli inventore di un certo qual genio. Anch’egli un poco pigro a passare all’atto. E se ciò è giustificabile nel caso della Nave Volante, ché lì occorrevano di molti denari, e la povertà religiosa che il buon Padre Lana professava, e a differenza del Fleury interpretava in modo corretto, non gli consentiva di procurarseli, se ciò, dicevo, è giustificabile per la Nave, non lo è certo per la panacea, il mirabile liquore che preserva e guarisce da ogni infermità: muove i paralitici, spedisce gli apoplettici, gli asmatici e gli asfittici, gl’isterici e i diabetici… almeno questo è quel che si dice in giro. A me ha anche rivelato, una volta, che funziona bene pei polmoni: “Bene– gli ho detto io – allora non hai che da mandarcene un due tre barili qui alla Fortezza, che ce n’è di bisogno!” Ma voi l’avete visto? Io non ho visto più nulla. Gli ho anche scritto, ma non risponde. Del Bartoli, però, che a quanto pare è suo amico, m’ha sempre parlato bene. Specie ora che, giunto a vecchiaia, s’è tutto dato alla causa della scienza, e dell’esperimento in ispecie. Ne ha anche inventato uno, che è più o meno così: si prende, ai piè d’un alto monte, come può esser questo nostro, un cannello empito d’argentovivo e lo si attuffa in un vaso di bocca assai stretta…

– No! la prego, signor Guglielmo!

– Voi poeti non avete l’animo curioso. Ma sia! Tornando al Bartoli, non ricordo che il Lana m’abbia mai fatto menzione d’affondamento, né di naufragio. Neppur di viaggi in genere, s’è per questo. Mi disse, a voler esser precisi, che il Padre Bartoli, da che lo conosceva lui, non s’era mai mosso dalla sua stanza alla Casa dei Professi, se non beninteso per gli offizii quotidiani. Il suo coinquilino, il Padre Kircher, dice perché è pigro, ma Kircher è ancora arrabbiato per via di certi accenni irrispettosi che l’altro ha fatto al suo lavoro in uno di quei suoi Trattati. L’ha ben bastonato, dico io, e ha anche fatto bene; Kircher, infondo infondo era un astrologo, oltre che un grafomane.

Ergo, io non ci credo, alla pigrizia del Bartoli; mi son piuttosto figurato che sia per spregio, sì, insomma, per ripicca, o qualcosa del genere. Dimandò infatti egli sin da giovanissimo, lo so sempre dal Lana, licenza ai Superiori d’andare a farsi martirizzare all’Indie. O pure in Cina, alle Moluche o al Giappone, o ovunque fosse rischio d’esservi annegati per acque, arsi per fuoco, arrotati, arrosti, inchiodati, infilati di cannucce nell’ugne o abbocconati financo in milleseicento pezzi. Ma non ce lo mandarono. Io mi son fatto l’idea che fosse per il modo che lo dimandava: sempre con garbo, con grazia e con istile. E soprattutto con una prosa! Una prosa esquisita ed elegante. S’io fossi stato un superiore suo mi sarei ben guardato dal sagrificare cotanta loquela alla causa degl’empi idolatri.

– Hai sentito, Daniello? Non solo Iddio che ti scampa dal vuoto della morte, Aristotile dal vuoto pneumatico, anche la loquela curiale che ti scampa dal martirio!

– Dal martirio per acqua e per fuoco m’ha scampato, dalle cannucce nell’unghie e dall’abbocconamento in divariati pezzi. Ma forse voi trascurate, tu monticante poeta e gli altri tuoi compatrioti d’Alvernia, che appunto in virtù, e in onore, della mia loquela ho avuto dai superiori precetto, anzi comando, di stendere la monumentale Istoria della Compagnia, in 1600 volumi, in 3000 tomi. In ciò consiste il mio martirio, non in altro, e credi ch’è a bastanza.

Prima di cominciare l’Istoria, ricordo ch’ero allora intento a comporre le Vite degli Uomini Illustri della Compagnia, ebbi modo di osservare come grandezza e santità sian spesse volte accompagnate, e forse direi meglio anticipate, da infermità e sofferenza. Ne feci allora argomento di molte belle pagine, nelle quali scrissi che chi Iddio vuol far santo, gli dà da patire assai, e chi ha la croce più lunga ha la scala più alta, e così via discorrendo. Ma ne discorrevo per sentito dire, ché d’esperienza, al tempo, non sapevo quel che fosse patimento, né pazienza.

Misero Daniello! Iddio che lasciando inascoltate le tue ostinate preci di novizio ti aveva negato, e qui dice bene il vescovo,  il martirio glorioso dell’Indie, e con esso le molte guise di patimenti e famose sofferenze che t’avrebbero fatto noto al mondo intiero, e nelle quali il mondo intiero avrebbe conosciuto e salutato al suon di trombe e cimbali la predilezione, e la santa benedizione del Padre nel figlio sofferente, Iddio volse allora il suo celeste orecchio, e il suo paterno guardo allo scrittoio ove stavi chinato, e solo per iscritto, per interposta persona o per altrui relazione t’era dato di partire, e patire. Con atto irrevocabile di decreto infallibile stabilì allora che tale fosse la tua immobile croce: un subdolo e solitario soffrire di topo, breve e fragile scala storta che, chi s’azzardi a salirvi, lo mena in un solaio vecchio, umido e vuoto.

– Non pensavo…

– Taci, Ripellino, che non è ancora niente! Iddio aveva stabilito ch’io mi consumassi nell’Istoria, e potrei dirti che poiché piaceva a Dio, e ai Superiori, il facevo sì volentieri, che non avrei saputo far altro se non mal volentieri. Ma il fatto è che faceva pure freddo, tanto freddo, nella mia stanza, nel verno. Credi che la mattina, la notte essendosi passata serena e rigida, trovavo i vetri delle finestre intonacati per dentro d’una sottil crosta di gelo, ch’era l’umido e il vapore del mio fiato ivi rappreso. E non m’abbisognava il termometro di Pietro, o quello portatile del Duca, per sapere che quelli eran gradi di freddo. Anzi, m’è più volte avvenuto di gittar acqua in terra, e le gocciole che se ne spargevano per la percossa, vederle correre come fatte pallottine di ghiaccio. E non l’acqua soltanto, ma eziandio l’aria era condensata, rappigliata e come congelata: quasi una pasta d’aria, tanto compressa e densa che come raccontan gli Olandesi aver trovato in uno di quei lor viaggi alla Nuova Zembla, il tempo dell’oriuolo a ruota, con tutto il suo peso ordinario, non lavorava (con tutto che, stando alle ragioni addotte dal Vossio, non che starsi immobile, quell’oriuolo doveva correre non 24 sole, ma 30 e più ore del giorno), e a pena, e con difficoltà, io vi respirava. Ben è vero che in tal modo ebbi io chiaro all’intelletto, non forse altrettanto ai sensi istupiditi dal gelo, che l’aver temperato e addolcito l’aria col caldo non fu solamente un utile trovato dei Peripatetici, ma una reale provvidenza della Natura. Ben misera consolazione! E sovrumano sforzo godere la mente alle fantasime della ragione mentre il corpo raggela ai rigor del verno!

Qui nella Fortezza vi tengono al caldo, vi lasciano scrivere secondo il vostro genio: “Pietro, il baccelliere della camera 11 fa gli oroscopi a’ sassi. Peggio: Angelo, lo slavista della 37 scrive versi scomposti; parla di Assiria e di Kakatukka, di Bagonghi e batraci, e meninas, Malello e Malora; scrive a vanvera” – “Bene! Lo si lasci fare, lo si incoraggi anzi, se è il caso, ch’è la sua terapia per non morire.”

E se invece stai per morire davvero, e tossisci e chiami, ti sentono e mandan Papageno a prendersi cura di te. Io tossisco spesso, ho flussioni e convulsioni, e tosse violenta, e alcun poco sanguigna. E se avverrà, come un giorno avverrà, che io stia per morire davvero, nessuno si prenderà cura di me, perché non mi avranno sentito, o se ne saranno accorti tardi. Non Papageno né Kakadù, bensì qualcuno che nemmeno conosco, abbattendosi a passare davanti alla mia camera, udirà come certe voci di dolore, e di lamento. Entrato, troverà un povero vecchio disteso in terra, avvolto nel lenzuolo, stremato nelle forze e intirizzito dal freddo. Perché, come ti dissi, nella mia stanza c’è freddo.

E loro non so, ma s’io mal non indovino tu almeno, Ripellino, uscirai di qui. E uscito ci sarà qualcuno, più d’uno forse, ad attenderti. Io no; di tra quegl’instromenti che mi sicurerebbero a tuo dire nei perigli hai infatti taciuto la gonna lunga, che mi scampa dal matrimonio, e dal femmineo impaccio: non occhi smeraldi, non conche di labbra m’han mai reso felice, e nel dolore non ho esili mani da coprire di baci, prima di piangere.

Per giunta, e per conseguente, non ho famiglia: non eredi discesi per retta, non prole pietosa per prendersi cura: di me, dei miei appunti, delle mie cartacce ammucchiate, da svolgersi a pena, con mani pazienti.

Al contrasto, quando il poeta muore, quanto affettuoso affannarsi i figli e i nipoti! Li vedi, Abellino? Rimpiattati, tra divertiti e intrepidi, nella pancia di legno di Sparafucile, cavallo a dondolo, per abbatter con astuzia – Oh quale amorosa astuzia! – le mura della tua stanza e penetrare coll’inganno – Oh quale inganno delizioso! – nei tuoi garbugli di fogli. Li senti? Girano le pagine, una per una, e sorridono delle sparute parole, del tuo delirio e della tua poesia saltimbanca e dicono, i nipoti: “Il signor Gobelino, questo archivio di preziosità e anacronismi, portava calzoni rigonfi…” Lo senti, in tutto ciò, quanto affetto?

E quanto altrimenti da quegli, che senza affanno né affetto, con però il mandato dei superiori e la forza dell’abitudine, macchinalmente entreranno nella mia, non già più mia stanza ma di chi, occupante di dopo, provvisorio pertanto, vi perduri alcun poco, e per far posto, com’è giusto, alle sue povere cose, daranno scampo alle mie misere.

A me vivo non discari, è tuttavia assai probabile che sian fatti esecutori confratelli distanti, alieni dico ai miei miseri e terrestri interessi di scienziato; ignari di meccaniche e dinamiche ctonie, di statica e di acustica, d’idraulica ed’armonica, dopo aver messo accuratamente in conquasso le carte, dopo aver meccanicamente rivoltate le pagine con polpastrelli umidi e rapidi, recheranno in salvo, secondo che parrà loro opportuno, prediche, panegirici e orazioni, e financo certe stucchevoli grammatiche, che scrissi per noja. Il resto lo bruceranno nel camino: conti, tabelle, diagrammi, modelli… Ho certi modelli in scala tridimensionali della grotta di Dionigi, la camera dei Giganti, la Tromba Parlante del Cavaliere Morland…

A volte mi domando, Vanellino, e se Aristotile si fosse sbagliato? Se davvero, di là, fosse vuoto? E se Iddio, mi perdoni, fosse un’invenzione dei preti? 

 

Quinta Stazione: Dialogo del naufrago gesuita e dell’Angelo dottore

Dove s’incontra anche il supremo narratore

 

Pergere. Mai bastevoli vialetti per messapici spasseggi, negativo novembre, l’ozio ai sedili. Volto in sosta considerativa, già questore or vegliardo, raso cranio e l’insegne sul petto dell’Elefante Bianco. Dincontra panchina verde raggiunta, deposto amico bastone, attornogli aligere altalene creature pregustevoli a desco disperse pur briciole eccellenti granelli.

– Gesuita negatore d’Iddio, scarpe lustre di crema zenzero e convolvoli, aspre suolacce rumorose verso imperscrutabili oltre, che diceva il poeta di là dalle stelle deve Egli abitare. Di là. Fuori dello spazio. Fuori del tempo. Dove non c’è dove.

– Dubitative, signore, trattavasi di pure dubitative: “E se – ribadisco: se – Aristotile si fosse sbagliato? Se davvero di là fosse vuoto?”, quando non di retorici artifizii: “ E se Iddio fosse un’invenzione dei preti?” Frasi ad effetto, signore, ch’io posi in chiusa d’un lungo, composito e assai articolato discorso, il qual discorso, a ben intenderlo, tutt’altra verità diceva all’orecchio, e a ben divisarlo tutt’altro paesaggio dipingeva all’occhio. A volerlo seguire.

– Lassitudine. A volerlo seguire· panegirico non esatto, superfluo anzi e mal propagginato, qual vostro guasto martire. Bello però il teicomaco cavallo, filiale ripieno: Spadazziere?

– Sparafucile.

– Bello. E le iridi topazio.

– Smeralde.

– Meno. Ma perché tu, gesuita, in questa persa rocca infrequente affannarti per viali, intorno alla vasca, avantindietro fra cesali di bosso cedri araucarie lilla cigni l’agave: gemini steli eccelsi, vane giraffe corna di cervi, galoppi, ambio stanco, tappe interrotte, ostili guardiani, libera infelicità su ruminante ghiaia?

Bartoli siede d’ascolto, come fiabante l’altro, dimesso signore che sprigiona potenza di locomotiva. Non parole vengono alla lingua, guardi dell’occhio le implorano al poeta.

– Così è, Daniello. Tutti noi, suoi inadeguati fedeli, lo seguiamo a fatica in quest’aria purgatissima delle grandi vette d’Alvernia.

– L’Alvernia dei Crebri rumorosi? T’ho mai detto, Ripellino, di quella volta che traducevamo: io, Enrico, Rao… ?

– Qualche decina di volte. Poi rivolto nuovamente al Bartoli: È mio conterraneo e concittadino. Ed è scrittore, pure. Scrittore di poco verbo e di nessun punto a capo. Forse perché avaro. Forse perché altrove, oltre i paragrafi illegittimi, instà la poesia. Quanto alla diffidenza pel verbo, e dico il verbo fatto a persona, dicon sia per via dei Cinesi.

– Ben so: i Cinesi, infedeli e idolatri, perfino lo negano. È per questo, anche per questo, che chiesi ai superiori l’Oriente e il martirio.

– Ma non è solo questo, Daniel, è anche il resto: tutto un togliere tocchi, sottender sensi… un’assoluta sparagnìa di parole… Chissà, i superiori secondandoti, chissà se non saresti tornato pure tu di laggiù con una prosa breve, secca, composta e asciutta. Non ti risulta si desse, nell’Ordine, un certo brachilogìsmo di ritorno? Di ritorno d’Oriente?

– Non mi risulta; né mi riesce agevole infingermelo, un gesuita paratattico. M’era del resto ancor più ininfingibile un siffatto siciliano.

Parazìm!

– Non che ciò significhi necessariamente chiarezza, e te lo dico ora da critico stizzito, o leggibilità. Oscurità, piuttosto.

– Peggio di quella sepia nera d’Aristotile?

– Peggio non so, frate: diverso: diversamente incomprensibile. Penso ch’ei preferisca in ogni caso Platone. Per via dello stile. Del ritmo – ParazìmParazìm! – Già le quattro! La banda! Vedi: egli l’attende ogni giorno su questa panchina verde. Sempre la stessa panca. Sempre la stessa banda. Sempre la stessa musica: Schubert ma con scoppietti; altre piccole marce, per ultimo Valencia, con rantoloso ritmo di fretta, qual battibecco fra anziani signori, forse ufficiali in pensione. In sé è abbastanza deprimente, ma credo gli rammenti qualcosa, là fuori.

– Là fuori la banda: apparecchiarsi in suo luogo, ordine quadrilungo, sguardi centripeti. Parazìm. Ottoni sternuti, pelliccio rombo: Parazìm. Ventrali fremiti, clarini nasardi: Parazìm. E dietro persiane smeraldo la levigatezza assoluta: carte suganti, aritmetiche marginali per somme incredibili, pattini gregoriani, termometri curativi, lucifere statue, scale, ascensore e certi attori rimasti per scioglimento di compagnia. Come il tuo circo muffito e trappolone, Ripellino, invisibile oltre il cancello pistacchio. A proposito, ho visto anche Pianissimo, Bigoncio e Pancrazio Stornello. Andavano verso il ponte.

Lasciato il meraviglioso vegliardo, passata la banda, poeta e gesuita si rimettono in cammino, in coda agli ultimi musicanti.

– Questa nebbia di novembre altera, che ci attossica e governa, e questa luce minerale di limone nel cielo molliccio, vedi frate, s’abbatte sul ponte del parco e lo incantesima. Vedi, ora è il Ponte di Pietra, il Ponte di Praga, non pare anche a te? il Ponte Carlo, con le balaustre di arenaria, e sopravi i santi di arenaria, e i dottori e i vescovi. Li vedi?

– Io vedo un nebbione dell’accidenti, e dentrovi alcune figure d’uomini che camminano, e vanno, parmi, verso un ponticello di ferro battuto.

– Di pietra, Daniello, di pietra arenaria. Non si vede bene perché è il tramonto, vedi? come in un quadro di Petr Brandll. Ma segui quegli uomini, frate, avvicinati: vedi? Cinque angeli policromi e tre oscuri musicanti: avanzano controtempo. Ma non sono angeli, guarda meglio, no! sono i buffoni: Pianissimo, Bigoncio e Pancrazio. E poi Jäkele-Narr e Koppel-Bär: guardali! cascano per farti ridere: col gilè a righe rosse, il nero frac e l’ombrello, la pelliccia d’orso arruffata, i sonagli d’argento rubati al drago e il violino.

– Io vedo cinque figure che camminano lentamente, nella nebbia.

– E i musicisti, non li vedi? come marciano zitti, gli oboi sotto il braccio? Giungono infine al Ponte, dove noi siamo ad attenderli da tempo immemorabile.

– Noi?

– Noi. Tu ed io. In pietra arenaria, come gli altri. Io sulla destra, tu dirimpetto; sulla sinistra dunque per chi proceda dalla Città Vecchia verso Malà Strana. Io sulla sinistra, tu sulla destra per chi vada al contrario. Tu, la tua statua cioè, raffigura il tuo fortunoso salvamento, quando portandoti da Napoli a Messina, onde predicar la Quaresima in Palermo, facesti naufragio sulle coste di Capri .

– Ivi trovai ricovero, e conforto, presso i buoni frati della Certosa, correva l’anno del signore 1646.

– Furono infatti quei buoni monaci che commissionarono la statua ad un famoso, al tempo, scultore tirolese, noto per la prodigalità del gesto. Forse c’entravano anche i gesuiti del Collegio di Praga, nella trattativa. Il mio committente è invece anonimo, l’autore un assai più compassato artista coevo, forse Brokof.

– E tu come lo sai?

– Nel tuo caso c’è la certezza della documentazione conservata dalla Compagnia. Nel mio caso l’attribuzione è puramente congetturale, ma ci sono indizi di carattere stilistico e taluni accenni rinvenuti di tra le carte del maestro. Ad ogni buon conto, tu stai lì, con il fascio delle tue prediche intrise di Quaresima in una mano, nell’altra il Santo Rosario, la tonaca come infuriata dal vento, un piede nudo sul sabbione, uno ancora nei flutti marini, col passo impreciso di chi naufragò per zattera; e intorno al barcollante barcone: testuggini, paguri, serpi oceanici e polpi, calamari e torpedini, pesci ippocampi e sirene, storioni e meduse ed un orrendo Scilla a significare il periglio, il tutto mirabilmente effigiato nel piedistallo di sasso.

– Ben sai che non era zattera, ma galea di Malta che mi naufragò, e non in oceano ma in mare domestico e costiero, e che senza l’impaccio della veste, di che feci un fardello per i miei arnesi e le mie prediche, e che gittai quanto più potei verso terra, con salto misurato e non con passo impreciso guadagnai l’asciutto. L’involto delle prediche, rapitomi dall’onda ed ingoiato dal flutto, lo riebbi poi sol molto tempo appresso, col pescato di zelanti uomini di mare.

– Non era zattera? Non ne sortisti con le prediche intrise? Non con la tonaca inviperita? E con ciò? Forse che Cosma e Damiano, sulla balaustra lì accanto a te, si spasseggiaron giammai per il mondo con quei bossoletti di unguento che l’arte dello scultore ha posto loro in mano? Forse che il tuo Saverio, là in fondo al Ponte, fu mai veduto nel vero porger la croce al negro, al tartaro e al giapponese in quella guisa in che l’ha fissato lo scalpello? Forse che Nostro Signore ebbe mai la leggerezza di posare cosiffattamente la mano sua santa sull’omero umano di Luitgarda? Forse che io stesso feci mai mostra di me così come mi hanno qui effigiato, con questa toga di baccelliere, questi tomi tarlati in una mano e nell’altra questa pregiata penna col pennino di crisopazi?

Simboli, gesuita, simboli trasportati al materiale: solide fantasime, coagulo di cifre, ideali alati che solo la zavorra del macigno può trattenere, formule di incantesimi che solo la duritudine del pietrame ci fa decifrabili… La toga composta, per esempio, mi significa al volgo riverito sapiente, come la tua tonaca volante ti dice gesuita, gesuita nel periglio. E lo dice assai meglio delle brache, o mutande. La zattera poi, sarai d’accordo, più del naviglio rende l’idea della precarietà del viaggio, e accresce la tensione drammatica. Le prediche, infine, occorreva pur mostrarle, per dar conto della tua missione. Come i libri, che in me stanno a significare l’attitudine alle umane lettere, che senza penna poteva scambiarsi ancora per fruizione passiva, mentre con essa, che è instromento attivo dello scrivere, si viene incontrovertibilmente ad indicare la mia professione di critico: e pedante, come mostra il cipiglio, e acuto, come suggerisce la punta acuminata del crisopazio.

Mi han fatto così, credo, perché era più facile. Io, fosse stato per me, avessi saputo come ammaestrare in tal senso il sasso, mi sarei piuttosto figurato in guisa di anacronismo, in abito di doglia e in atto di sforzo: che fosse chiaro che lo trascino dall’abisso dei secoli; nella posa, per di più, del fakiro gassoso: i baffi intinti nel miele del kitsch e filacce d’autunno a farmi da saio. Ma più di tutto mi sarei forse ritratto in forma di una fuga di fughe: ritorno, follore e speranza: un qualcosa che sventola, insomma, ma sventola senza uno spazio. Forse quel tirolese dal gesto smodato, che in quel tuo vestone imbizzarrito ha così mirabilmente intrappolato il turbamento e l’irrequietezza del tuo animo naufragato, forse lui avrebbe saputo farlo. Di certo non quell’altro: maestoso, logico, compatto, equilibrato… Quell’altro no.

– E qui t’inganni, poeta, ché ci son simboli e simboli: quelli facili e quelli difficili, quelli buoni e quelli cattivi, quelli trasportabili al sasso e quelli no. Se, come ti certifica la mia figura qui dirimpetto, il durame della pietrificazione può con poco sforzo recepire, e di poi restituire, il gesto di salvazione del gesuita navigatore di una galea maltese, per quanto recata a zattera, non perciò potrà apprendere, e recare altrui, le tue intenzioni. Ti dico anzi che per quanto tu ti affanni a cercarlo, in tutto quanto è grande questo grandissimo Universo non ti sarà dato di trovare macigno che renda, nella sua grana grossolana, sol anco una flebil eco, e distorta, dell’urlo di disperazione  dell’Angelo navigatore della sua angoscia notturna.

Non l’urlo della pietra, Abellino, al più il balbettio dei detriti. Eppoi, a qual pro di scomodare i sassi, tu, prodigioso domator di sintassi? Non ti ostinare nella durezza del pietrone, poeta, rammenta ciò che disse Alessandro a quel greco scultore che volea fermar la sua figura nel macigno immenso del monte Ato: non gli scarpelli di Stesicrate, desidero, ma la penna d’Omero. Ritraiti dunque anche tu, ancora, nella pieghevolezza della parola, nell’arrendevolezza del segno, nell’accondiscendenza del metro… come un tempo, quando coi tuoi galoppi di inchiostro destavi vortici di ingannevoli mantelli, e amori e fervori e sussulti e incantamenti… Era bello, signor Vanellino…

– Era bello, compagno Cornacchia, ma non l’hanno capita, la nobile poesia del soffrire…

– È perché tu ci hai messo dentro tutte quelle citazioni, e quel che era la polpa del tuo dolore l’han presa per distaccanza: troppa distillazione, troppa elaborazione frenica, troppa passion di spirito, e tu ben dovresti sapere che di fra le immondissime bassezze ch’empiono il misero capo al volgo ignorante non v’ha posto per la passione dello spirito; ch’essi tutto patiscono di ventre, signor Solferino, e di trippe. E tutto giudicano di superficial superficie, e d’involucri.

Giunto a vecchiaia, anch’io al par tuo sentii il bisogno di mostrarmi com’ero, com’ero didentro, dico, e presi perciò a comporre, per altrui pro e per mio svagamento, certe opericciuole d’argomento scientifico. Non però da giuoco, come parve poi a taluni, che scambiarono per stupore di parroco il mio maravigliar di filosofo. E dannaron di artifizio retorico il mio metodo istorico; e dire che mi recensì il Giornale de’ Letterati: mi lessero fin anco nella gran Brettagna.

Ma m’ingannai, poeta, ché troppo eccessiva pretesa, e troppo mirabil cosa sarebbe di venire intesi, non dico nelle segrete intenzioni, ma nelle espressioni eziandio manifeste dei nostri pensieri espressi, da chi non ha in potere di intendere. E dico non solo il volgo villico, ma anche il baccellierame coltivato, quando sia coltivato al niente, come puoi ognidì considerare nei negozi dell’intelletto. Abrutimento, signor Papùga, abrutimento che riporta l’uomo di mente alla gran bestia ch’egli era: gli ottunde i sensi, gli orecchi gl’empie di bambagia e gl’intasa di minugia, sicché egli più non ode, ché più non può udire, il dolore che tu dici.

E non vale dirlo più forte, Abellino: al più egli intenderà indistinte note di naso, resti di ronzo e romore, piccoli pezzi di pena che pur non saprà rirecare ad intero. E non vale dirlo più chiaro, come se fosse colpa nostra, dei tuoi versi o dei miei scritti, ove troppo ardita la sintesi, sottinteso il senso e sottaciuto il nesso, abbiano alfine reso incomunicabile il detto… No! Abellino, non vale farsi più espliciti, più munifici e mirifici, più prodighi e prolifici… non val la pena…  non val la pena di urlarlo, poeta, di esibirlo e divulgarlo, come se così, scolpito nel sasso, il tuo dotto dolore potesse prender la forza da venire finalmente inteso; come se non più pudicamente occultato sotto la toga acquistasse d’incanto il potere di venire a servizio di alcuno… come se il vil passante avesse i mezzi da trarre dai tuoi marmorei gesti, e cifre, e dagli scomposti simboli quell’ammaestramento che non seppe suggere dai tuoi scritti, e saggi, e dai composti versi… come se potesse essergli la tua scolpita sapienza di stimolo, la tua effigiata sofferenza di supporto… Dico che no, Abellino, che non val la pena…

Fattosi accosto, anche uno dei musici annuisce. O forse è solo ubriaco e ciondola. Di certo però posa l’oboe e piscia, asseverativo e preciso, sul piedistallo del poeta: sulla sua erudizione di critico, sul suo abito di doglia e sul suo urlo di disperazione; piscia sui simboli e sulle cifre, sui volumi in quarto e sugli appunti sparsi, sui termometri, sui barometri e sugl’instromenti tutti del l’umano sapere; e sapendo, soffrire.

 

Sesta Stazione: Madonna Venere

Dove si fa la conoscenza d’un grande poeta, indi d’un grande romanziere

 

– Non è da caso ch’ei mingesse sul tuo, e non sul mio piedistallo, ché sul mio, ma non sul tuo stanno istoriati i pesci ippocampi, e come bene disse Plinio: urinae incontinentiam hippocampi tosti et in cibo saepe sumpti emendantHistoria, libro trentadue, capo centonove.

– Epperò anche eccitano Venere. Ibidem, capo centotrentanove.

Passato il ponte di pietra, o ponte di ferro, o d’altra metallica lega, poeta e gesuita van proseguendo il lor cammino verso l’uscita posteriore, profetizzata dal custode e materializzatasi a poca distanza in forma di quasi mimetico cancelletto verde e rugginoso, da cui entrano tutti, e tutti escono, cigolando, senza chiedere.

Al cancello, ch’era stato un tempo pitturato di verde, è diretto anche il possessor della dotta voce ch’è appena giunta loro alle spalle. Trattasi d’un giovane sobrio, d’aspetto oltremodo composto e al guardo malinconico, recante seco due ingombranti ed eleganti valigie. Forse prescelto, sta egli accingendosi a lasciare, s’indovina per sempre, la Fortezza.

– Sempre che lor intendano prestar fede alla prosa, peraltro assai poco elegante, di Plinio. La sente infatti ben diversamente Galeno, prenominato Claudio, il quale afferma esser l’ippocampo giovevole non alla continenza, né agli ardori di Venere, ma alla ricrescita dei capelli, che sian cascati per pelagione. Ma forse anche l’opinione di Galeno sarà da annoverarsi tra gli errori degli antichi. Certo l’autore, come tutti i professori di scienze matematiche o fisiche, io l’escludo dal ben scrivere. E aggiungo che non abbiamo in verità, di questa sorta di scienze, buoni ed eleganti scrittori né antichi né moderni, se non pochissimi.

– Vorrà intender tra essi il Galileo. Interviene il Bartoli, già nei suoi Trattati gran lodatore del pisano.

– Galileo lo chiami elegante chi non conosce la nostra lingua, e non ha il senso dell’eleganza. E non l’hanno, parmi dover concludere, i preti gesuiti.

Con tutto che fu prete, prete gesuita, colui che fra tutti del suo tempo e fors’anche di tutti i tempi, meglio e più profondamente e pienamente conobbe e per conseguente impiegò la nostra lingua. E dico il Padre Daniello Bartoli, ch’è come dire il Dante della prosa italiana: non un dipintore soltanto, come fu Ovidio, non un descrittore qual Virgilio e Omero, ma uno che senza descriver dipinge, e anzi più ancora intaglia e scolpisce dinanzi agli occhi, quasi come artista tirolese. E quasi come fiamma divina, dalle cui faville io pure presi, se m’è concesso dirvene, seme delle mie poche cosette, e fummi mamma e nutrice l’opera sua poetando. E sappiate ancor ch’egli, giunto a vecchiaia e non pago del tanto che giovò all’umane lettere, si diè anche a comporre, per altrui pro e per suo svagamento, certi trattati d’argomento scientifico, nei quali ei fu insieme tecnico, le sue opere furon infatti recensite dal Giornale de’ Letterati e lette fin anco nella gran Brettagna, ma anche elegante. Uno dei pochissimi che dicevo. Forse tu Ripellino non mi crederai, ma darei un altro anno ancora in questa Fortezza di dolore, sol per averlo conosciuto!

Così il giovane poeta elegante, che con sue valigie s’appresta all’uscita. E prima ch’abbia terminato il sermone, già il Bartoli è volto all’amico, con viso che dice, tacendo, tacere anch’egli. Ma non può tutto la virtù che vuole: Ripellino tace parole ma non sa tacer un sorriso, che chiaro gli si stampa in volto, tra stolido e ammiccante.

– Che cazzo c’è da ridere?

Stupore negl’interlocutori. Ripellino vuol dir le sue ragioni, Bartoli dice: dille, Ripellino dice:

– Deh, Giacomo, con tutta la stima che ti porto, nonostante il colorito eloquio, o forse anche per quello, ti pare forse che ti riderei in viso?

– Non pareami, infatti.

– E infatti io non ridea. Sorridea, ché questo ospite mio, prete gesuita, altri non è che quel Daniello che tu dici, e che in sua operagion di lettere anche a te diede spunto, e semenza.

– Daniello Bartoli il gesuita?! Che il diavolo lo porti! Avrei dovuto capirlo subito dal ghigno, ma m’han tratto in inganno quegl’ordegni che reca seco, e me lo scambiaron per venditore, venditore di sonde lunari e di barometri. E io ho in uggia, sapete, i venditori di elisiri, di manuali di conversazione, di oroscopi e di barometri. Ma perché mai reca egli seco siffatti ordegni?

– Sta facendo un esperimento, coll’argentovivo.

– Già, lessi anch’io che l’argentovivo giova nella ritenzione dell’urina. O forse mi confondo con la spiuma d’argento, l’argentovivo essendo più che altro velenoso. Se non m’inganno è il Mattioli nel suo commento al Diascoride che racconta, prendendola però in impresto da Pietro d’Abano, la vicenda di quel tizio, uno speziale, che andando ansando la notte con gran sete, inavvertitamente bevve una libbra d’argentovivo, in cambio forse di qualche acqua lambiccata. Il che fu conosciuto perché trovatolo la mattina dopo, morto nel letto, fu veduto l’argentovivo che per il sedere se n’usciva fuor del corpo. Essendo appunto esso argentovivo oltremodo pesante. E se così fosse, è certo che non può indurre ritenzione di nulla, tantomeno d’urina, e neppure converrà adoprarlo negli esercizi di Venere, i quali ad ogni modo non s’addicono ai preti gesuiti. E poi anche la ritenzione dell’urina non è sempre un bene: dicono che le complicanze di prostata che uccisero il grande Tychone siano da imputarsi in ultima analisi a ciò, non avendo egli avuto l’ardire di alzarsi da tavola durante un banchetto, la quale azione, sebbene motivata da inderogabile urgenza mintoria, riteneva egli disdicevole per ineleganza. Ma ora devo proprio andare.

– Hai detto saresti rimasto un altro anno, sol ti fosse stato dato di conoscere il Bartoli. E gli è qua, e tu te ne vai?

– Un conto son le parole, un altro la vita, caro il mio Angelo: le parole hanno da esser savie, e filosofiche, ma non la vita, ché anzi una vita troppo savia e filosofica è indizio d’uomo poco savio, e poco filosofo. È sabato, a Clermont-Ferrant c’è la festa delle sbarbe, dicono ci sia fica.

– Non vedo cosa tu ci vada a fare: ben sai che anche lì non te la daranno, se non con quelle infinite difficoltà che hai provato negli altri paesi.

– Più che ben saperlo, posso ben immaginarlo, ma in primo luogo fin che sto qui ne son certo. In secondo luogo, non è l’operazione dell’averla in sé, che dà diletto all’uomo filosofo, quanto piuttosto la potenza necessaria, anche se non sempre sufficiente, a siffatto atto, inteso come scopo. Ben sai, Vanellino, che l’uomo umano, e il vivente in generale, ha facoltà illimitata d’amore, e senza limiti desidera pertanto il proprio piacere. Tuttavolta, il piacere in atto, in quanto atto, ha necessariamente un limite, ergo non può soddisfare il vivente. Resta il piacere in potenza, ch’è indefinito ed illimitato, mai interamente possedibile, ma illimitatamente, ch’è come dire continuamente tale. S’io ora mi metto in cammino verso Clermont, ch’è come dire verso la topa in atto, intesa qual cosa non presente che debba seguirne, col solo incamminarmi mi s’induce l’illusione, e nell’illusione, vale a dire da qui a Clermont, son contento. Anzi, ti dirò di più, che questo stato di contentezza previa posso protrarlo indefinitamente: basta ch’io percorra prima metà del cammino, poi metà della metà che resta, poi metà della metà della metà e così via: come insegna Zenone, non giungerò mai a Clermont ma il mio andarci sarà un illimitato piacere. Come anche tu m’insegni, poeta: non c’è strada, e non c’è fuga, ma solo vertigine di taverna. Un verso che definirei abbastanza elegante. Ad ogni buon conto, se mai dovessi arrivare, e arrivare prima della festa, ho qui in valigia un pocolino di pepe cubebe e qualche pane di galanga, entrambi amici assai di Madonna Venere.

– Non mi dirai che credi a coteste fole?

– Crederci è una parola grossa, diciamo che non si sa mai. Male non credo che facciano.

Male non fanno di certo; bene, anzi, ché il pepe cubebe masticato lungamente insieme con mastice tira gagliardamente per sputo la flemma dalla testa e la galanga, parimenti tenuta in bocca, masticata e ingerita toglie i puzzori del fiato e vale agli acetosi rutti dello stomaco. Oltre ad irritare al coito e far maraviglioso effetto nella difficoltà d’urina, come la maggior parte degli alimenti ventosi: semi d’ortica, di lino e di rapa, rucola, saffrone e draconzio, o erba serpone, porro, nasturzio e aglio, radice di caglio tirolese, di pastinaca e di gladiolo (quella di sopra, ché quella di sotto fa l’effetto opposto), e ancora succo di menta e di reni di scinco, o stinco.

– Male non fanno di certo; bene, anzi, ché giovano nella debolezza e freddezza di stomaco, e in tutti i fastidj gastrici con cui Dio giustamente punisce la nostra gola. Oltreché coll’abbandonarci in queste lande montane, abbiadati a rape e patate, onde così grandemente, nell’intristirci, assottigliamo. Ma le son spezie del lontano Oriente: non le conosceva Galeno, e non gli furon pertanto di giovamento in quelle sue così deplorevoli mangiate di frutta autunnali, che lo lasciavano un paio di mesi più morto che vivo: cocomeri, melloni, more di gelso, uva e fichi: i cinque indigeribili di Crisippo: robba bona, ma dura a liquidarsi giù per lo stomaco. E di certo proveniente da campi altrui.

È dunque bene che il ladro di fichi non disponesse di pepe cubebe, né di galanga; bene che lo salassassero a dovere, con appositi siringoni… una speciale partita di siringoni spuntati e rugginosi: certi spiedi! A riuscir dove non avean riuscito gli schidioni dei cancelli, ché la gente alla ruba dei fichi, tutta si dovrebbe infilare sugli schidioni dei cancelli: zac! lo scroto… zac! il testimonio! Altro che ippocampi, a portar a termine i lor maritali esercizj… zac! anche Galeno, e tutta la genìa dei medici delle budella!

– Ecco, quegli stesso – Il giovin poeta che il protrarsi del dialogo trattiene suo malgrado sull’uscio indica l’uomo che ha appena parlato. Un uomo elegante e distinto, forse un po’ imbronciato, cravatta a pallini su di un completo grigio già appartenuto ad un sé stesso più giovane d’anni e più abbondante di carni – Ecco, quegli è un altro dei pochissimi tecnici eleganti. Ancorché non sia l’eleganza in sé il pregio suo massimo. Un’eleganza in contrasto, forse, ecco, egli pronto a rinnegarla ad ogni istante t, con frequenza non calcolabile e non prevedibile. E non solo l’eleganza, ma ogni regola dello scrivere pratica egli con somma perizia, e soddisfazion manifesta, l’arte d’infrangerla. Con tutto che le regole ch’ei pretende regolino, e senza eccezioni governino la vita sociale, quelle le intende invece quali dogmi: ininfrangibili e inaggirabili, e ad essi si piega senza riserve, senza ritegno, quasi impetrandoli, s’essi non sono, all’autorità competente. Quella pulsione normativa, cari amici, quel bisogno d’ordine che han reso così poco felice la giovinezza sua. Nel senso del vivere. E a dispetto, dicevo, di tanto ottuso assoggettamento al codice mondano s’è poi egli arrogato, in età matura, il diritto di aggirare, con la stessa sorda pervicacia, le regole dell’arte, sospendendone a suo insindacabile ed imperscrutabile giudizio la validità.

Forse un effetto collaterale, rampollato come portato secondario d’un regime troppo rigoroso, un interno impulso alla ribellione cui non avendo egli lo spirito, né la medulla, di dar corso, ed effetto disruptivo nei negozj del mondo, è infine pervenuto a sfogare meno rovinosamente in quelli dell’arte: quelli della disciplina scrittoria e di quella alimentare, o digrumativa, uniche a suo ben vedere degne d’appellarsi artistiche. Campione inarrivato del salto dal registro, raggiunge egli la maggior forza, l’apice, la perfezione, l’ ajkmhv, in certa sua prosa dura, incollata, e tuttavolta ingioiellata di certe sue parole difficili, che lambicca rabbioso dalla memoria. Il che, sia detto per inciso, non dee riuscirgli ostico, con tutta la meccanica che ha in testa.

Prendano la mirabile descrizione delle pagnottelle imbottite al rosbiffe, embricate, didentro, di tali tre fette di filetto; o le porchette dalla pelle d’oro, addormitesi sui taglieri; o le sleppe di manzo fagiano nella malinconia del tramonto… Ma il mio pezzo favorito è quello che tratta del piccione arrosto e della ferale aragosta, ove si narra egli essere stato per morire in seguito all’ingestione taluno dice d’un riccio, altri d’un granchio o scorpione marino; segue descrizione dettagliata.

Ora, non per voler essere pedante, ma la descrizione e la stessa incertezza delle fonti in merito alla classificazione e corretta denominazione della bestia, ch’egli identifica infine qual aragosta, non possono non sovvenirmi della analoga trattazione che il Mattioli, nel suo ottimo sebbene non elegantissimo commento al Dioscoride, dedica a quello stesso ippocampo di cui si discorreva poc’anzi. Dice il buon medico che pur non mancando chi connumeri l’ippocampo tra le specie delle locuste marine, e lo lodi per gli usi medicinali, nientedimeno non è dato di trovare alla fine nessuno che narri con esattezza qual sia la vera forma dell’animale; tralasciando le dicerie del volgo, restano infatti due fronti interpretativi, tra loro incompatibili, tra i quali financo gli esperti non san risolversi. Oltre a coloro che, assumendo che il prefisso ippoderivi dal greco hippos, e cioè cavallo, e intendendo l’ippocampo qual cavallo flessuoso lo identificano con quel piccolo animaletto altrimenti detto draghetto, o cavalletto marino, col becco di cavallo, o forse ancor più di drago che di cavallo, il petto inarcato e la schiena alta a modo di gobba – e tra questi immagino dover annoverare anche te, Ripellino, e il tuo amico prete – oltre a questi, dicevo, ci son altri che sostengono invece che non dal cavallo abbia preso esso il nome, ma da quei bruchi che pascon l’erbe negli orti e nelle campagne, e son dai Greci chiamati campe. Onde fan conghiettura che sia l’ippocampo ad essi simile per forma, ma maggiore in dimensioni, come suggerito dal prefisso, inteso in questo caso hippo, cioè grande. Il fatto che Dioscoride ne parli come d’un picciolo animaletto viene da essi spiegato coll’aggiungervi che, quantunque sia esso picciolo se commisurato ai grossissimi pesci marini e altri animali acquatici, nondimeno è grande se comparato a quella sorte di bruchi, a cui si rassembra e da cui ha preso il nome. Onde io, aggiunge il Mattioli, ho alcune volte inclinato l’animo a creder quello esser l’ippocampo, che i pescatori d’Aquileia e di Grado chiamano faloppa. Segue la descrizione, che dice egli esser di corpo lunghetto, più largo dietro che dinanzi, con branche non biforcate, come granchi e gamberi, ma tutte armate da cinque acutissime spine. Ha egli sedici piedi, i quali dieci più vicini alla bocca son nell’estremità quasi simili a code di scorpioni, mentre gli altri son come quelli delle locuste. Ha in capo sei corna, le ultime delle quali non tonde ma larghe e cartilaginose. Nel dorso è tutto maneggevole, come i bruchi, di modo che camminando per terra va nel loro stesso modo, e ha infine la coda larga, con più alette attorno e più acutissime spine, ed è di colore purpureo. Segue disegno, che significa precisamente l’aragosta descritta e ingerita dal nostro autore.

Ora, dacché non possiamo negare ch’egli conosca, e ce l’ha appena confermato, le virtù afrodisiache volgarmente associate all’ippocampo, credo io ch’egli l’abbia fatto di proposito, di suggerire il riferimento al Mattioli, e l’abbia fatto nell’intento di introdurre, nel resoconto del già vizioso suo contegno col cibo, una sfumatura ancor più peccaminosa, per modo che la riprovazione del lettore onesto sia infine totale: ché la gola si scusa forse, ma l’estro di Venere mai. Non so perché non sia stato egli più esplicito. Forse timidezza, pudicizia eccessiva; l’avrei preferito, nell’insieme, un poco più sbottonato, in certi contesti. O forse mi vien solo difficile pormi in un ordine d’idee in cui il desiderio del cibo predomini su quello dei sensi.

– Uno scrittore recente ebbe pertanto a sostenere che tu di tua golosità sia infine perito. Bramosia, e parrebbe financo delibazione in atto di non troppo igienici, forse infettivi sorbetti, perniciosi in tempo di colera. Così insinuato il dubbio nelle parole del giovin poeta, lo slavista è a sua volta rettificato dal pedante gesuita:

– Sorbetti o forse gelati, come sostengono alcune fonti attendibili. Quando non addirittura confetti cannellini… Ma il giovin poeta sembra averne abbastanza delle varianti interpretative della di lui stesso opera scritta, e vissuta persona:

– Basterebbe mettersi d’accordo: gobbo, storto, pessimista, progressista, donnajuolo, segajuolo, ratto di biblioteca, di bordello, di cucina, lupo mannaro, orso bolso, buco d’orso, forse negro, financo forse finocchio… Trovo sempre degno di considerazione il fatto d’aver dato da scrivere, e da vivere, io nemico della mediocrità del volgo, ad un numero innumerabile di mediocerrimi volgari individui: interpreti insignificanti, vacui, e quasi sempre pochissimo eleganti. Con le dovute eccezioni, s’intende. Quello dei sorbetti, ad esempio, era un ottimo scrittore, ma quanto alla comprensione del testo, lì non ci siamo. Il correttore di bozze, che a modo suo mi volle anche bene, lui già un po’ meglio; meglio di tutti, però, quello dei licantropi: scrittor grandissimo e ancor più degno di nota nella vacuità infinita dei contemporanei suoi, tra i quali non abbiamo che poter nomare scrittori, se non pochissimi. E poi elegante: elegante e intelligente, l’unico che mi abbia davvero, almeno in parte, compreso. E perciò amato, fors’anche troppo. Ho talvolta l’impressione che della mia tormentata esistenza, e sanguinosa infanzia, abbia egli penetrato il senso a tal segno da farle infine sue. Credo anzi che un po’ ci marci, su quest’infiniti travagli infintisi, e ad arte inflittisi: malinconia, disperazione, depravazione, farmachi… Penso che alla fine sia tutto un trucco, per raccattar fica. Ebbi un tempo a scrivere che la malinconia non piace alle donne: la mia malinconia, mite e mogia, effettivamente no, ma ben elaborata e aizzata a lucida follia, chissà che non interessi… D’or innanzi m’atteggerò piuttosto a poeta tenebroso… e già che ci sono vo davvero: vo a vivere, amici, ché ho detto a bastanza. Addio!

Il poeta e il gesuita seguono con il guardo, il primo anche con malcelata invidia, l’uscita di scena del transfuga: tre gradini, cancello verde, cigola, strada.

– Ci scriverai, almeno?!

– A Daniello forse. Ad Angelo mai!


 

Intermezzo Poetico

Dove si leggon due composizioni inedite del giovin poeta,

trovate su un foglio ch’egli perse uscendo dalla Fortezza

 

 

 

 

 

 


Ossa Stese

Orpo! Sempre sarei per

star comico… No! Premine il genio strano

ch’erotico ei mi rende. Ben inteso, per

anni in rigidi canoni

l’impeto spense, e ‘l desider… No! Che noja!

passer perso… Ah! mi pesa –

Silvia spenta – sul canto annaspo…

Oh! Miti uoti, densi d’aspre agonie!

Ma l’ora è rinata, ora

l’alta luna miro, e nel fondo la vita mogia

pasco, di trama quieta e

stolta: la tigre folle mi trova alunno,

ne’ lochi lindi non erro: dispari e mazzo

baro. Tu nell’attuarti,

O tosca donna, che spero e pur mancami,

la notte tuteli, finta, divina.

 

Sesso a Est

Mi prese saper, or però,

omino stracco, non è per me. Altri sogni

chiedo; e no meretrici serbe, no pinte

i crini d’inganni, ai! no!

L’impeto d’onde che salse pose nei reni

mi spossa, s’apre e pare

palpito stanco. Nessuna Silvana 

m’ispira, e disdegno i toni uoti, e

l’amata noia. A! Errore!

Maiala vita! Null’altro… ‘l nefando e mogio

Dio trama: quieta pasce

l’uliva – matto! – folgori e lontre. Saltan

l’ore che non mi ridon: se i pazzi d’amor

tribolano, e tu A! brutta

rospaccia… no! che muso! Merda! E topa non 

vidi: tanto nulla, niente fatti.



 

 

Settima Stazione: Viscerale

Dove termina la storia

 

Il malinconico poeta s’impiccioliva, con lenta gradualità, coll’andar della strada, che andava assai lentamente nell’ombra strascicata dei larici, spondaici ciottoli imponendo il passo alle scarpe eleganti, poco pieghevoli di suola. Andava con tutto ciò libero, lasciandosi dietro la desolata Fortezza e i suoi desolatissimi abitatori e visitatori; e poeti e preti.

– Grande è in me l’invidia per i liberi, per il gretto equilibrio dei risanati, quelli che vanno, e io resto nella mala sorte, nella nobile inutile poesia del soffrire, di che non so più che farmi. Sempre rinchiuso, come un vecchio ronzino coperto di zecche, ho ansia di cure, e di pascolo caldo; sempre costretto a lucida, cerimoniale veggenza, ho sete di vita banale, di ruvide cose, di semplice affetto…

– Non ruvide cose, Ripellino, lisce! – A parlare è ora l’uomo distinto, benché poco riconoscibile per difetto di carne nel completo grigio eccessivo – Lisce come il labbro sottile e molato d’un diaccio calice di vernaccia, di pantelleria amabile, o anche solo di un bianco sano della Sierra Encantadora… Non semplice affetto, poeta, doppio! Doppio sfilatino imbottito: il toccasana dei toccasana! Altro che l’intruglio di quel buon padre Lana…

– Eppure quello ci tocca, caro ingegnere, quello e non altro, in questo purgatorio, in questo lazzaretto di monte dove la nostra sete non l’abbeverano d’ambrosie, non di spiriti d’acquaviti, ma d’aceto, mio caro, di cialappa e fracida bevagna…

– E la nostra fame la placano di caolini, Angelo, e bismuti e digiuni sempiterni; quando non d’orride vigilie di mele cotte e semolini. Parmi davvero, talvolta, d’essere in convento.

– Quantunque lui ardisca affermare che qui stiamo assai meglio che in convento. – Lui pare sia il Bartoli, il quale approfittando della distrazione s’è appressato al cancello, donde intende infine andarsene. Ma ancora non è tempo. – E allora dico io: bene! se qui stiamo meglio perché non resti? Sei ben rimasto nella piegata galea in fortuna, a portar conforto a naviganti sconosciuti, imprevidenti e peccatori. Perché non rimanere nel nostro ospizio, ch’è sicuro nel monte, vasello snelletto e leggiero di naviganti noti, desolati degenti denutriti in questa rocca d’Alvernia?

– Ho i miei offizi, poeta, e i miei novizi: penitenze e sagrifizi di frate che non posso demandare ad altri. E ho l’Istoria, la monumentale Istoria della Compagnia da portare a compimento prima che la vecchiezza me ne tolga il tempo, e gl’instromenti. M’han concesso licenza per l’esperimento, ma non posso troppo approfittare della bontà de’ superiori, che assai mi preferirebbero assiso al mio tavolo. Devo proprio andare. Anzi, già che ci sono vo davvero. Vo a scrivere, amici, che ho detto a bastanza. Addio.

– Ritornerai, almeno!?

– Quest’altr’anno che viene, forse. In primavera. Ho in mente una serie d’esperimenti coi grassi animali, da trattare con certe basi forti che so io; poi è questione di nitrificare, e lì ci son varie procedure possibili, resta da stabilire qual sia la meglio: perciò occore andar d’esperimento, e mi abbisogna un luogo acconcio: tranquillo e isolato, nonché collaboratori attenti, precisi e affidabili. La Fortezza mi pare all’uopo un luogo adatto, e son certo di poter trovare tra gli abitanti non pochi interessati potenziali assistenti. Di certo più che alla Casa dei Professi, dove son tutti dietro alle preghiere.

Ritornerò dunque presto, Abellino, recando meco l’occorrente: le basi, gli acidi, e anche della farina fossile, o altro supporto inerte, che stabilizzi il tutto.

– E anche conforto, Padre: reca teco conforto, e comprensione, che allevî il nostro dolore di reclusi e reietti; e amore, che l’animo c’empia di speranza buona; e fragore, Daniello, un fragore che soffochi il pianto scordato dei nostri violini…

– E anche un presciuttino di montagna: reca teco un presciuttino, che allevî il nostro languor di stomaco, e di budella. E un qualche piccione, empìto e ripienato di patate. Novelle, mi raccomando. E galantine, pasticcetti, rosbiffi e porchette, carcioffie e anguille… Poi rivolto di nuovo al poeta: Basta amore, Ripellino, basta fragore, violini e semolini! Non di termometri abbisogni, non di minestre di stelline: di anguille, piuttosto, di anguille di Bolsena e consumati di tartaruga, aspersovi pepe, e beccacce e ananassi, in disparte i budellini, e starne lepri cedroni cignali e trote, e murene dal lago. E insieme indivie e ravanelli, caciuole e uova a bere, credimi, e pesci d’uovo: una pace tutta degusto, diceva un mio coetaneo, e tuo conterraneo, e concittadino.

– E io ti dico: attento! – il Bartoli riprende la parola – che la pace è nel Signore, non nel degusto; e dell’animale, dell’animale bestione, non dell’uomo savio, è proprio il cercare appagamento nel cibo, e piacere nel coito.

E ti dico perciò: attento! che Iddio se vuole mette in periglio, e assai tormento manda al viscerame degl’umani ingordo. E s’essi non s’avvedono, silenziosamente, e inavvertitamente quasi, li reca a final dannamento di costipazione, i visceri tutti ma anco l’ossa e i nervi e le polpe e l’ugne, e financo i capegli e in somma l’uomo vorace nella sua total persona di bestia. Proprio come accadde al grasson Nauclide, solo perché mangione cacciato da Sparta, e proprio com’ebbi a scrivere un tempo in un mio libro picciuoletto di simboli: libro quarto, capo ottavo: “Il naufragio costiero e tuttavia mortale, ovvero l’insidia grande che si nasconde dietro l’ingestione apparentemente innocua di vivanda”.

Foss’egli nell’oceano profondissimo dell’Indie – cito – fosse al largo del Capo Tempestoso, nel mar delle balene e bastimenti, pelago di polpi e di lampreda, o fosse anche nel domestico seno d’Italica piaggia, sempre però sarà nocevole, e perigliosissima e inquieta l’acqua che c’inghiotte, ciurma di peccatori! E non perché costiero, sarà dunque il naufragio men mortifero, specie quando esso origina non d’accidental tempesta marina, ma di cogitata ira divina.

N’ebbi io stesso esperienza, alcuni anni or sono, nel portarmi che feci di Napoli a Messina su una galea di Malta. E dire che mi avevano i superiori avvisato: “Non vi mettete in pelago, Padre!” Ma mi ci misi, e per me molto dannosamente. Avea disposto infatti Iddio che in sì picciol corso di viaggio, ed in sì angusto braccio di mare, dovessi io avere un saggio dei pericoli che accompagnano per solito i viaggi all’Indie: intendeva infatti Egli punire, col naufragio e con l’orribil morte per acque, due peccatori lussuriosi che a mia e ad altrui insaputa si trovavan sul legno. Ma non all’insaputa Sua: avea Egli infatti ravvisato, dietro i panni d’uomo ch’ella indossava per celarsi, il reale sembiante d’una donna adultera, che volea fuggir per mare insieme col suo falso sposo.

Eransi dunque di poco sciolti dai periti marinai i solidi ormeggi, ancor da terminarsi il duro lavoro di braccia, e mani, e voci del robusto equipaggio che rassesta, e ordinatamente dispone il cordame, e sartiame, e le catene, i ganci, i paronfi, i paranchi e i canapi, e in somma tutti gl’infiniti ordegni che compongono l’attrezzatura marinara, quand’Egli indusse improvvisa a levarsi una furiosa tempesta. E senza dimandare alcuno s’egli fosse lecito assalir legno così di presso la costa, immantinente l’avvolse con rapidi venti, e turbinosi, e insieme il sollevò, e l’abbassò, e di nuovo il sollevò con smisurate onde, e rovinose. Ma non del tutto il sommerse: lasciollo invece alcun poco sopra l’acque, dando ai naviganti cristiani qualche micolo di speranza.

Ora, essendo il viaggio stimato breve, e di nessun periglio, eransi per la maggior parte quei marinari, e passeggeri viaggiatori, imbarcati senza pensiero. Senza pensiero di naufragio, e dunque, benché cristiani, senza premessa di confessione; cosicché toccommi, in quanto ministro del Signore, non gittarmi in mare subito, come sarebbe stato mio razionalissimo istinto di natural sopravvivenza, bensì restarmi paziente sulla periclitante galea, mentre il vento incalzava, e il flutto risospigneva, e si abbassava, e si levava, e con esso le grida degl’uomini, che gl’elementi infuriati menavano a dannamento d’annegamento.

E a dannamento d’inferno, aggiungo io, se non giungesse loro in tempo la sacramental assoluzione, che come io solo potea recare, restai dunque, con rischio grande di rimanere danneggiato, a ricever la confessione di chiunque peccatore volesse in ultimo riconciliarsi a Dio. La conclusione del fatto si fu che alcuni periron nei flutti, e massime i due peccatori della carne, mentre gli altri n’uscirono con guasti diversi, ma infine vivi. Io stesso, fatto un fardello di mie vesti – che disse bene Cratete: nel mare di questa vita alle tempeste non contrasta chi è carico, ma chi nuota ignudo – ed involte in esse le prediche e i pochi arnesi che un uomo di chiesa richiede in viaggio, con salto misurato mi gittai verso riva e con danno non mortale, di corpo e di carte, fui ripescato: io subito, le carte qualche giorno appresso.

Ma perché vi ho detto tutto questo, amici? Perché ho voluto rappresentarvi al disteso, con qualche compiacimento nol niego, questo tormento e naufragio di nave, con che Iddio punì la bramosia dei sensi di quei due amanti? Per mio e vostro svagamento? Per ricreazione? Forse per giuoco?

Non per giuoco, amici, ma per davvero; e per davvero per il vostro bene, perché nel ragionar d’esso vi volea condurre, senza voi troppo avvedervene, a figurarvi in uno il similar tormento, e naufragio di corpo, con che Iddio può ogni giorno punire la bramosia di cibo degl’uomini ingordi. E in primo luogo ho assimilato il naufragio di visceri a quello di nave per via dei sintomi, che in amendue i casi son tormenti di squassamento, torcimento di budella e copiosa vomizione. L’ho poi assomigliato ad un naufragio di costa, e non di mare oceano, imperocché sopravviene esso non nel corso di grandi imprese, come sarebbe un lungo e periglioso viaggio all’Indie, ma nel corso di usuali, quotidiane e dimestiche pratiche, quali son quelle del cibo. E li ho infine recati a comparazione in virtù della comparabile nocività degli effetti: come l’inatteso naufragio di nave reca infatti issoffatto alla morte nel peccato, e per essa al danno infernale, così quello dei visceri reca allo stallo nella costipazione, e per essa al blocco intestinale.

Se ben rammentate, tuttavia, ho io anche invocato, nel caso del naufragio del peccatore, l’intervento salvifico della confessione, e per essa l’assoluzione e la salvezza dell’anima. Ora, che cos’è la medicina, e per essa l’egezione, e la disoppilazione del corpo, se non l’analogo medicinale della confession religiosa, e dei suoi maravigliosissimi effetti?

Quel che ho detto del viaggiatore di nave, che non dee mettersi in mare senza pensier della morte, sia dunque detto anche del mangiatore di cibo, che senza pensier di costipazione non dee mettersi in tavola. Giacché se quello è il giorno che Iddio ha deciso punire le sue peccata, quel giorno manderà al navigatore di nave il periglio di procella e al mangiatore di cibo quello di budella. E poco conta s’egli navighi in acque lagose o in pelago profondo.

Così ha detto il gesuita loquace, cui fa pronta eco il loico ingegnere, rivolto al sofferente poeta:

– Vuoi davvero che costui torni a trovarti? Che torni recando seco il conforto e la comprensione, l’amore e il fragore, le prediche e i perigli marini, e i budelli e i budellini?

– Forse no. Poi rivolto al Bartoli: Sai, Daniello, ci ho ripensato; puoi anche non venire a trovarmi. Puoi anzi andare in culo: te e le prediche,  l’amore e il fragore, il periglio e il budello; e il budello di tu mà in primis.

Come vuole il suo abito, il gesuita non si scompone:

– Anzichenò in culo ci vai te, Ripellino. Te e il signor Solferino, anche, e il signor Gobelino, Abellino e Vanellino, Bigoncio, Pancrazio e i tuoi amici cagoni. Pecoro.

– Barile di piscio.

– Sempre meglio il piscio che lo scolo della tua Fortezza di merda, e i vialetti e i nanetti, le panchine e i ponti, la nebbia e le frittelle, le giulebbe, le babbucce e l’altre puzzure tutte dei tuoi versi piagnoni.

– È che non capisci una sega, pezzo di trogolo, e in ispecial modo non capisci la poesia.

– Poesia? Quale poesia? Lagna, Ripellino, nojosissima lagna. E perché mai tanta lagna? Forse per dolore del corpo? Per sofferenza dell’animo? O forse perché c’hai la fava piccina…

– Piccina, forse, in comparazione di quella grandissima majala della tu’ sorella. Troia. Senza contare che non è il quanto, prete, ma il quale; non il peso ma l’uso, che fa il significato. La quale, appunto, a non usarlo…

– Un menomo, un micolino, un tritolo… hai poco da girarci attorno. Con tutto che soltanto a fare il giro della mia cappella, sia lodato Iddio, ti ci vorrebbero tre giorni…

E qui si fan sordi gli orecchi, e si omette, per il rispetto dovuto all’erudito lettore, il resto del dialogo. Non si posson però far ciechi gli occhi, che testimoniano di veduta quel che segue; e dico farsi d’incontro i due personaggi: da manca lo slavista, in veste da camera, con pantofole feltrate, che blandiscono il ghiaino bianco, da dritta il Gesuita, in veste talare, con grosse scarpe dure e scricchiolanti. S’appressano essi lènti, e però inesoràbili, come in d’altri tèmpi tenzòne. E come a dar sègno di non infìnto intènto, ma robùsto e vèro, lèvasi ‘l poèta la dèstra ciabàtta e con grand’àstio scàglial’àll’indirìzzo del Gesuìta. Pàrala quègli e anzi rimbàlzala precìso colpèndola col passeggèvol bastòne paràto a màzza. Schìvala ‘l poèta e di rimàndo – rìma, poèta – tìra un termòmetro  due termò  metritre termò  metriecosi comì  nciala battà  gliaa spraeffò  rtedei duerudì  tigen tilò  mini oraeBàr  toli cheavà  nzaco mesè  rpetrai termò  metri lancià  tida lpoè  taeco mealcì  rcoche gliacrò  bati sitì  ranoi cortè  llipre ndelostù  ccode llatà  scafa unapà  llache latì  rabbe llodrì  ttone llapà  nciade lpoè  tache sabbà  ssasa vvicì  napo nemà  noal cappè  llode lgesuì  taglie lotò  glie gliè  lobu ttapè  rlate rralò  carpe stacò  lle suò  ledi babbù  ccepe rofò  rteche lorò  mpetu ttoquà  nto…

[La battaglia, da dirsi con accento siciliano, in metrica, la si può proseguire a piacere. Al termine, è ormai il tramonto, cala il sipario. Musica.]

 

 

 

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