venerdì 11 settembre 2020

Orizzontali 2



Basso Ostinato: dialogo del Comandante e del suo nuovo valletto di stalla

 

Dicesi patùs il tritume di paglia o di altre festuche, e in senso più esteso la stramaglia per fare il letto al bestiame nelle stalle. Dicesi altresì fojêt (fuejàm, frindéi) il fogliame da analogamente stendere sotto il bestiame (stierni sot i nimâj).L’identità d’uso non giustifica confusione di termini.

– Non avrebbe qualcosa da farmi fare?

– Le andrebbe bene rastrellare (tirâ donğhie) il fogliame, massime di faggio, dai prati, spesso in discesa, onde impedire che resti nel fieno, ché le bovine non gradiscono?

– Penso di sì

– Occorre farlo in questa stagione. Finita la neve e non ancora alta, anzi ben bassa l’erba e prima che la terra troppo si sofficisca. Anzi è già tardi. Non occorre che porti il rastrello.

– Va bene domattina?

– Va bene domattina.

– Suona passando? (o passa suonando?)

– Suono passando.

In Carnia e sulla destra del Tagliamento dicesi ğiocul il capretto che non abbia compiuto l’anno di età. Dicesi invece ovunque čiondar il vuoto, o cavo, specie dell’albero.

– Le famiglie prendevano nome da un carattere fisico, o da un fatto notevole. Per quelli del čiondar si è trattato di una donna, già altrimenti e più tranquillamente madre, cui toccaron le doglie nell’andare a far fieno, in giornata di assai caldo. Sgravatasi lungo il cammino, si dice abbia collocato il recente pargolo in un cavo d’albero, all’ombra e a parziale riparo, per recuperarlo con più comodo al ritorno.

– Ciò è vero?

– Non è detto che ciò sia necessariamente vero. Presumibilmente ha anzi del falso, ma il semplice fatto che la vicenda fosse credibile diviene segno della sua verisimiglianza. Non trova?

– Trovo. Del resto dice qualcosa di molto simile anche Aristotele, mi pare nella Poetica.

– Anche per quelli dell’ors abbiamo da supporre un’espansione verosimilmente enfatica su di un nucleo di verità. Gli ors erano di Poggessa. Quando il trisnonno è venuto ad insediarsi qui, siamo a metà Ottocento, ci ha trovato l’orso; il che non essendo particolarmente inusuale per l’epoca, pare che il vecchio non trovasse nulla da obiettare ad una convivenza pacifica, da condursi nei termini di un reciproco, tacito, rispetto. Ora, l’orso in genere essendo animale di modi non propriamente cortesi, e quell’orso in ispecie avendo preso gusto soverchio nel trafugare al trisavolo svariate sorte di bestie, da cortile e no, pare il trisavolo abbia avuto agio di rivedere le proprie iniziali posizioni e in un momento di stizza abbia assalito l’animale, e distruttolo, con il solo aiuto di un’ascia e del cane.

– Pensi che io credevo che ors stesse ad indicare il carattere schivo ed eventualmente poco cordiale dei componenti la famiglia.

– Il che pure non è falso: e sia detto che valianci di siffatta anfibolia semantica per dissuader il villico dalla visita importuna.

Con la forma verbale intransitiva filosofâ suole primariamente indicarsi l’esercizio del mestiere di filosofo (filòsof). Per traslato, denominasi filòsof anche chi la filosofia (filosofìe) non l’abbia a mestiere ma solamente a proprio personal trastulloIn ambiente rurestre, nelle osterie e in taluni opifici il termine è inteso in un’accezione alquanto spregiativa.Timp, tempo, indica indifferentemente il tempo atmosferico e quello cronologico

– Sempre mi fu a cura lo studio della filosofia, massime in tempo di pioggia, che son i giorni in che mi resto dalla fatica. La mia amica del bar, là di Groud, per portarle un esempio, parendomi di intravedere in lei una certa inclinazione per la materia, l’anno addietro le feci dono dell’Abbagnano

– Tutto!?

– Mi par tutto: cos’erano, tredici volumi? Dapprima avendole già fatto impresto di tal operucola di Russell, roba non troppo soda (robis di fèminis), e avendo essa gradito, anche le proposi Aut Aut di Kierkegaard. Forse troppo tecnico, però: non ne parlammo oltre.

– Anche a me è distante certo recente filosofare: preferisco senza dubbio addarmi alla macchinazione d’Aristotile. Quando non attendo all’orto – che tra parentesi quest’anno, con quei due cubi di letame che mi ha portato e che son stati spanti con una certa abbondanza, mi aspetto una miglior riuscita di quella disastrosa dell’anno passato – quando non attendo all’orto, dicevo, e non son qui con lei a rastrellare, allora lavoro a una cosa. Una cosa sul tempo…

– Il tempo chronos, o quello atmosferico?! Ah Ah… Non per non metter pregio al suo lavoro… Io ad ogni buon conto preferisco Marcuse. E a proposito di orto, i pali dei fagioli li ho visti: non vanno bene, quei suoi pali sono corti, e di sezione alquanto miseri.

Bevànde, bevanda, secondo il vocabolario si usa in contrapposto di vino schietto o d’altro liquore spiritoso. Individui sparsi utilizzano autonomamente il termine per indicare precisamente il contrario, specie nella locuzione dèdit a la bevànde, eufemismo per ubbriacone.

            – Già qui?

            – Stavo sperimentando la mia quasi totale inutilità; è frustrante. Non avevo mai rastrellato prati montani in discesa, lei mi mette soggezione. Sua madre mi mette soggezione. Sua madre portava un peso paragonabile al suo, di lei sua madre, nel gerlo nella neve in salita in inverno, nel sole in salita in estate. In salita sempre.

            – Mia madre aveva due figli soli. L’Amelia ne aveva otto, e un marito dedito alla bevanda. Faceva tutto lei, anche le legna con la scure. In salita sempre.

            – Non ho mai fatto legna.

            – Non le chiederò certo di venire a far legna. Se proprio vuole, una sera viene ad aiutarmi nella stalla, così conosce le bovine. La sera è meglio, la mattina comincio alle quattro e mezza.

            – Già, la sera è meglio. Ma perché le chiama bovine?

            – Perché vacche non è esaustivo, le manze non sono vacche. Se uno ha manze e vacche non può chiamarle vacche.

            – Lei ha manze?

            – No, solo vacche. 

Dicesi vačhie la vacca, intesa come bovide adulto di genere femminile che abbia già partorito almeno una volta. Prima del primo parto la vacca è denominata mange, o mangete, ovver manza, e la dicotomia vacca-manza, intesa come suddivisione dell’insieme bovina adulta, genera una partizione. La detta suddivisione è infatti esaustiva (l’unione dell’insieme vacca e dell’insieme manza è l’insieme bovina adulta) ed esclusiva (l’intersezione dell’insieme vacca e dell’insieme manza è l’insieme vuoto). L’evento primo parto può esser pertanto inteso come discrimine ontologico tra l’ente vacca e l’ente manza.

            – Ho un problema filosofico, sulla questione delle vacche e delle manze. Lei mi diceva che vacca è la manza che abbia partorito almeno una volta.

            – Precisamente.

            – Dunque prima del primo parto ho una manza, dopo il primo parto ho una vacca.

            – Se vuole.

            – Quindi potrei considerare la vacca e la manza come due stati contrari della bovina, e far coincidere i processo di generazione della vacca con quello del vitello, leggendo il divenire in senso assoluto del vitello dal non vitello come divenire in senso qualitativo della vacca dalla non vacca, cioè dalla manza?

            – Se le fa piacere. Non vedo tuttavia l’utilità pratica della sua interpretazione. Quel che preme, e le parlo da contadino, non è tanto il problema ontologico del divenire della vacca, e dunque del primo parto come mutamento, quanto piuttosto il problema pratico di porre un discrimine, preferibilmente puntuale, tra le nozioni di manza e vacca, intese più che altro in senso economico. A che scopo, secondo lei, si distingue una vacca da una manza?

            – A scopo classificatorio?

            – No crodis (non credo). A scopo di monetizzazione: la vacca vale di più, la manza di meno. Al commerciante non preme di sapere se quella che sta partorendo la prima volta è una vacca o una manza: sempre potrà aggirare il problema tralasciando di venderla, o di acquistarla, in quella mezz’ora. Ma poniamo pure che a lei importi di saperlo. Io le dico allora, contro il mio interesse, che quella che sta partorendo la prima volta è senza dubbio una manza.

            – Dunque lei tende a collocare la transizione manza-vacca al termine del compimento del parto, diciamo con l’estrusione del vitello?

            – Già, così poi lei mi dice che l’estrusione del vitello è un processo e non un evento puntuale, e andiamo avanti all’infinito. Facciamo invece che la transizione avvenga all’atto della separazione materiale del vitello dalla madre, quando si recide il cordone ombelicale, così chiudiamo la questione, visto che l’atto di divisione, che è puntuale, ci consente di leggere la transizione manza-vacca in termini di generazione senza processo: come l’atto di divisione della retta genera di un punto due, e spero non vorrà negarmi questa esser generazione senza processo, così l’atto di recisione del cordone genera di una manza una vacca. O se preferisce ancora, genera di una bovina due: l’una manza, l’altra vacca.

Dicesi patafebancs il baciapile, da patafâ (schiaffeggiare, calpestare, e per traslato scaldare) e banc (banco). Termine spregiativoPer consueto, specie nel contesto della tradizione agro-trotskista, i patafebancs sono ritenuti brute int (brutta gente).

            – La condizione di comunista, comunista e anticlericale, ritengo sia comune, quasi connaturata a certe nature, massimamente solitarie, originarie di luoghi solitamente impervi, ed ivi residenti. Uno dei fratelli di mio nonno, nipote perciò di mio trisnonno, quel dell’orso, era solito fuggire il prete, quando questi avea l’ardire di peregrinarsi insino al luogo impervio, a benedirvi casa e stalla. Per suo, il prete era solito fuggire lo sterco bovino: quando si naufragava appunto insino alla casa, e di qui alla stalla, il suo santo piede indugiava sulla soglia, laddove nell’intera persona soffermatosi, sospettamente sporgendosi, soffertamente scoteva quel suo spruzzolo, in prece al cielo contra il bovino morbo, il danno, il foco, il fungo, la ruina e ‘l crudo scempio. Anche quel mio altro parente filosofo che le dicevo, pure nipote del trisnonno dell’orso, pure era comunista e anticlericale. E pure stavasi in consuetudine col prete, per mezze giornate intere intrattenendocisi, in quelle soventi mezze giornate che i preti non sanno che fare. Lei ha mai avuto agio di sperimentare gli esiti di un colpo di tosse sull’evacuazione bovina (le faccio notare che qui la distinzione logico-ontologica vacca-manza è del tutto ininfluente)? È per questo che le pareti della stalla – l’ha osservata? – sono ricoperte di sterco. I preti non amano ciò.

            – E il trisnonno dell’orso?

            – In che senso?

            – Nel senso della fede.

            – Ebbe pagana la cuna. Donde la discendenza: grandissimi lavoratori della terra ed altrettali bestemmiatori dei cieli.

            – Non credo che le due cose vadano disgiunte, e in ogni modo ciò tradisce un certo qual sentimento del divino.

            – Può essere, ma diverso è sentire il divino, diverso è sentire la messa. Quelli non bestemmiavano il dio dei preti e dei patafebancs (brute int), ignoravano il sacrificio teandrico della croce, al più bestemmiavano il dio della grandine e dei temporali: conosce? Quello che manda tre giorni di pioggia sul fieno appena segato: conosce? Pare tuttavia che in avvicinarsi la morte più d’uno patì postrema conversione: una quindicina di orazioni in cambio di qualche decina d’anni di bestemmie, e in ogni modo poi son morti: brutto segno il ravvedimento: qualora dovesse vedermi così, insomma, si metta l’animo in sospettazione.

Con il verbo balinâ suole indicarsi primariamente l’atto del pigiare coi piedi un terreno vangato di fresco, lasciandovi le impronte. Più in generale, balina chi va e viene, chi si muove con irrequietudine, chi gira, anche eventualmente a vuoto.

– Ieri le ho preparato i pali per i fagioli. Ne avevo fatti sedici, poi ho pensato che avrebbe gradito averne in numero primo, così sono tornato fuori e ne ho fatto ancora uno. Già imbruniva.

– Diciassette sono meglio. Comunque sedici era una potenza di due.

– Fa ancora il matematico?

– Ho smesso. Mio fratello fa ancora il matematico, però fa anche i palindromi. Insieme facciamo gli anagrammi. Centinaia, migliaia di anagrammi… entriamo in risonanza e cominciamo a girare a vuoto. Una seduta compositiva può durare anche più giorni.

– E poi?

– Poi basta. Una volta abbiamo fatto anche delle giostrine di animaletti di creta colorata, sa quelle che s’usano appender al soffitto, o dansi in giuoco ai bambini.

– Ma lei odia i bambini, mi dicono.

– Mi sono alquanto indifferenti, da lontano. Da vicino m’affastidiano non poco: i bambini urlano, mandano in rottume gli oggetti, si cacano addosso, crescono e son da annoverarsi tra quelle occupazioni perpetue che tolgono la padronanza di sé medesimi.

– Sopra Cueste dal Lander ci stava un tipo, uno che s’era impuntigliato col dar ai figli solo nomi in A: Ada, Adamo, Adelmo, Agatopisto, Alfonso, Amelio, Antonio, Artemio, Astolfo, Attilio, Augusto… finitili, dovè usare altri nomi, ma questi figli con i nomi non in A alla fine li odiava.

Licôv è merenda o pasto che il proprietario dà agli operai occupati nella costruzione di un edificio, quando giungono al coperto. Dicesi fâ il licôv, ed il ritrovo ha carattere festevole, con imbandieramento o infrascamento del colmo della nuova casa. Si ha la stessa consuetudine, e si usa lo stesso termine, anche nel compimento di lavori agricoli di qualche importanza.

            – Ponga in essere quel suo ultimo carico, recuperi i suoi legni randagi e faccia tregua, ché abbiamo finito e si va fâ il licôv. La porto a bere una birra da Ho Chi Minh.

            – Non bevo.

            – Ho Chi Minh ha fatto per quattro anni il guardiano del parco alle Galapagos, dava da mangiare ai tartarugoni, vuole non bere una birra?

            – Potrebbe convincermi.

            – Anche lei mi aveva quasi convinto, con quel suo discorso che i gesuiti non erano tolemaici

            – No, infatti.

            – Mi aveva quasi convinto, e ciò nonostante gradisco restare sulla mia posizione ideologicamente preconcetta: la correzione che lei mi propone, e che di fatto ritengo comunque marginale ai fini della vicenda umana intesa nel suo complesso, mi costringerebbe infatti ad un aggiustamento di non poco momento di tutto il mio sistema di pensiero, e non credo avrei più la pazienza di ritarare il tutto: è una questione di equilibrio.

            – Di equilibrio.

            – Anzi, potremmo dire che è una questione di eleganza stilistica.

            – Diciamolo.

            – Del resto lei ama l’eleganza stilistica, la forma informante ma vuota, e ha il cranio ripieno di vocaboli oziosi e costrutti inattivi, oltreché pedanti.

            – Pedanti, vero.

            – E però non ha immaginazione, non dunque materia di cui riempirli.

            – Pare di no.

            – Ebbene, rammenta il parente filosofo?

            – Rammento, certo.

            – Occorre dire che da sobrio, vale a dire nel complementare dei venti venticinque giorni che ogni mese stavasi ubbriaco (al ere čhioc), anch’egli non dava mostra di immaginazione alcuna.

            – Non la dava, no.

            – Occorre dunque ipotizzare che le immaginasse, le storie, e poi le raccontasse, sempre solo sotto l’effetto della bevanda.

            – Occorre ipotizzarlo, infatti.

            – Massime quelle, ch’eran poi le sue preferite, di prigionia russa in Mongolia.

            – In Mongolia.

            – Nella quale Mongolia non sto a dirle che non era mai stato.

            – No, mai.

            – Tantomeno in qualità di prigioniero.

            – Tantomeno.

            – E men che mai dei Russi.

            – Dei Russi no davvero.

            – Se vuole dunque un consiglio, sperimenti il bottiglione: già, perché occorre dirlo.

            – Diciamolo.

            – E occorre anche dire che laddentro soltanto troverà la materia che le abbisogna.

            – Laddentro soltanto.

            – Quella e altra.

            – Già.

            – La stessa e diversa.

            – Vero.

            – Una e molteplice, che è e che non è, che appare e non appare.

            – Verissimo.

 

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