mercoledì 9 settembre 2020

Orizzontali 3

 


Kaloskagathos

 

Dice Aristotele nel sesto capitolo del Secondo della Fisica l’invano esser quando una certa azione, pur intrapresa in vista di un certo preciso scopo, non pervenga però a tale debita conclusione, o compimento. Supponiamo che uno passeggi onde di poi meglio cacare; supponiamo altresì che ciò non venga ad essere; allora diciamo ch’egli ha passeggiato invano, e che la passeggiata è stata vana. Ora, non essendo la nostra buona filosofia se non un’immensissima chiosa al detto Aristotele, un’operosa esegesi completiva, una perpetua postilla perfezionatrice, appare quantomeno curioso che non uno dei pur lodevolissimi scoliasti glossografi, impiastratori di margini, disaccentatori di lemmi, apponitori di punti e giuntatori di virgole, non uno degl’innumerabili esprimitori d’inespressi, dicitori di non detti e compitori d’incompiuti abbia sentito il bisogno di dichiarare, con pur minima clausola, l’aristotelica esposizione dell’invano. Vuoi per la chiarezza dell’esempio – exemplum perspicuum, dice Tommaso – vuoi per pudicizia delle cose di sotto, in luogo d’illustrare l’esponitore glissa, non sviscera ma espertamente aggira, temporeggia, indietreggia, esita ed evita: l’imbarazzo è reciproco, lo stallo condiviso. Ed è in fin dei conti lo stesso Aristotele ad istigarlo a ciò: lapaxis, dice, il passeggiare è a scopo di lapaxis, ed è come se dicesse: vedi, al commentatore, vedi che quasi ti avevo messo nella merda, quasi, e poi invece t’offro, inatteso, l’agio di sortirtene, netto, nettissimo, tu e la tua penna pudibonda di sagrestano, qual certo sarai, solo che tu sappia impiegarla ammodo; a modo di vergare, sulla tua carta di pecora, il ieroglifico del medico, che tempo che il paziente lettore lo decifri, tu ti sei già fugato, in altro impiccio, in altra noievolissima nota. Ed esso, paziente, a seguirti.

Così, nella sua letteralissima traduzione, adoprata da Tommaso, Guglielmo verga: depositionis causa, che l’altro s’avventura a sciogliere in un ancor cauto ad deponendum superflua naturae. Così, nella loro prosa gesuitica, i Coimbricensi ordiscono un ben più esplicito, per quanto inaccessibile ai più, deiiciendi alvi gratia, inchiosato, per giunta, come per ingenua dimenticanza, o insignificanza sancita. Così il buon Padre Toleto si gioca un abbordabile, ma ben poco ardito, gratia ventris purgandi, e così il guardingo Pacio: purgationis causa. E ciò detto, cambia discorso. Né si sottraggono al gioco gli interpreti contemporanei, che elegantemente passeggiano al fine di evacuare il corpo, leggi for the loosening of the bowels, o ancor peggio a un but laxatif.

Ora, già purgationis causa lasciava insoddisfatti, per via dell’eccessiva ambiguità del sostantivo, che troppo apertamente denunciava il tentativo, da parte del traduttore, di spostare l’attenzione dall’atto puntuale della deposizione, e dal suo imbarazzante esito estremo, al più discreto iter terapeutico che lo precede, e che certo di solito lo implica, ma non perciò necessariamente lo mostra: purgazione: dico purgazione e penso innanzitutto all’assunzione del farmaco disoppilante, che è un pensiero tecnico, e ciò è bene. Lo stesso dicasi ovviamente per il gratia ventris purgandi, che pur parendo aggiunger di chiarezza, di fatto anch’esso occulta, concentrando sul ventre, e cioè sul dentro intestinale implicito, lo sguardo del lettore. E anche ciò è bene, ma non è niente in confronto al curiale but laxatif, che inattesamente recrudesce, nella laicissima Gallia odierna, il cattolicone medieval rifiuto del corpo materiato, incarnato e sozzo, incontro alla purezza astratta dell’idea; e com’è astratto, ideale e puro lo scopo lassativo, che nemmeno più accenna al fatto, ma anzi lo ignora, e ignorandolo lo nega! Meno infelice, forse, il fine di evacuare il corpo, pur con l’anacronismo di un evacuare che all’orecchio nostro non dice lo svuotamento, ma piuttosto la fuga pilotata; e no‡…‡ [testo corrotto] ma del soggetto conversativo; e non dal retto, ma dalla magione, dal campo, dallo stabbio. Meglio, a dover scegliere, l’anglico loosening of the bowels, più esplicito, più concreto, più prossimo al gesuitico deiiciendi alvi, che pur sotto le sembianze innocue del nome tecnico, osa il termine diretto: alvus. Alvo è l’intestino, the bowels, la budella che il passeggio ha lo scopo di svuotare (to loose), ma alvo è anche l’esito, il risultato finale dello svuotamento, e la costruzione non lascia dubbi: deiiciendi alvi gratia: allo scopo di deicere, e cioè di lasciare a terra, di espellere, l’alvo, e cioè l’escremento, la deiezione, la merda, la reificazione concreta dell’idea platonica della cacca. E siamo così venuti al punto: per quanto la si rigiri, per quanto la si travesta di gergo, la situazione è chiara, e chiaramente sconvenevole: il compimento atteso e non perciò riuscito, il fallito esito che fa dir l’invano, lo scopo, insomma, il risultato e il fine che dovrebbe completare l’incompiuto è per Aristotele quello, e quello soltanto, e ciò in contrasto – forse in aperta polemica? – coi precetti del suo maestro. Se infatti lo scopo è ciò che dà senso all’azione di cui è scopo, che non per nulla si denomina non solo vana, ma incompleta, e perciò imperfetta, quando non vi sia addivenuta, allora esso è necessariamente buono. Lo scopo è buono, il fine è il bene – insegna in sintesi Platone – e il bello. La cacca invece è brutta, abominanda e brutta.

Forse perciò, per attenuare il contrasto, il buon concordista Tommaso aveva apposta la giunta: non depositionis causa ma ad deponendum superflua naturae, e cioè il residuo, l’inutile eccedenza delle funzioni vive e vitali, con ciò emettendo un netto giudizio di valore, e giocando d’anticipo contro ogni possibile obiezione: la cacca in sé è male, ed in quanto male non può essere lo scopo di alcunché. Se considerata nel contesto però, e cioè nel suo porsi come insopprimibile sottoprodotto delle naturali operazioni del naturalissimo intestino dell’uomo, essa si configura come un male minore. Tutto sta a che sia gestita in maniera opportuna: non conservata, ché in quanto produzione superflua sarebbe fonte di corruzione pel corpo, ma eliminata quanto prima possibile, sì da arrecare, all’opposto, sollievo. Perciò la cacca, correttamente deposta, è in un certo senso un bene, ma non è il bene: essa accade all’uomo ma non si può affermare che gli pertenga in quanto scopo, dal momento che completa l’incompleto ma non perciò perfeziona l’imperfetto. Così Tommaso

Interpreti più recenti seguono la strada opposta, giungendo ad assimigliare l’escremento non solo al bene ma al bello, e da ciò inducendo una perfetta coincidenza d’intenti tra maestro e allievo: ex adamantibus nihilletamine rosae. È tuttavia facile smontare l’argomentazione di costoro, che si fonda in ultima analisi su un uso improprio dei termini. Essi parlano infatti sempre e soltanto di letame, laddove il letame è una specie particolare di escremento, e le sue proprie caratteristiche estetiche non si estendono all’intero genere di cui è specie. Gli derivano infatti, le virtù positive, dal suo esser deposizione bovina (o equina, e in minor misura d’altro quadrupede) e dall’avere il bovino un sistema di stomaci e intestini differenti da quelli umani. Va detto per correttezza che Aristotele non specifica; non dice: un tizio va a passeggiare a scopo di lapaxis, dice: il passeggiare, e il passeggiare può essere umano, ma anche bovino, o equino, o in generale quadrupede, onde il letame. Del quale ultimo argomento si accettano le premesse ma non la conclusione, che contiene una fallacia. Il termine letame non si applica infatti alla singola deiezione, di cui è qui questione, bensì all’accumulo di più deiezioni, le quali vanno a perdere, nel mucchio portato a maturazione, la propria individualità. Perciò i filosofi analitici hanno partorito le indispensabili nozioni di sortale e mass-term: letame è un mass-term, stronzolo un sortale; è corretto affermare che si passeggia – chicchessìa a passeggiare – per deporre uno stronzolo (o più), non per deporre un letame. Per quanto sia dunque ingegnoso, lo scioglimento in termini di egezione animale si mostra logicamente incoerente: occorre pertanto supporre che la deiezione aristotelica sia strettamente umana. E restano così aperte due sole linee interpretative: o si dimostra che essa pure partecipa dell’idea del bello, oltreché del buono, o si accetta che Aristotele stia qui parlando in aperto contrasto con Platone, pace Tommaso.

Per quel che concerne la prima tesi, non è stata apertamente sostenuta, a conoscenza di chi scrive, da alcun autore, e l’unico indizio di adesione, per quanto implicita, resta quanto teorizzato nel fortunatissimo libro dei Segreti del Falloppia (da attribuirsi in realtà al Fioravanti), ove si legge il seguente Rimedio a chi (il chi esclude si alluda a quadrupede) havesse ricevuto assai cristeri, et non si potesse mandar fuori (cfr. deiiciendisupra). Togli un bicchiero d’oglio caldoet falli un cristeroet tutti li mandarà fuorapoi fagli una supposta di sterco di rattiet vederai cosa maravigliosa (p. 100 dell’edizione di Venezia del 1582; cfr. Luca, 5: Vidimus mirabilia hodie).

Ora, annoverando com’è ragionevole la testimonianza del Falloppia-Fioravanti tra le pure curiosità (Questo libro è buffo abbastanza, chiosava una mano databile alla seconda metà del XVII sull’ultima carta della copia ora conservata all’Angelica), non rimane che un’ipotesi: il contrasto – o ancora la polemica cercata – dell’allievo nei confronti del maestro. La conclusione è anzi immediata una volta che si osservi che non solo Aristotele sta qui parlando di uomo, e non di animale (come già correttamente inteso dal Falloppia) ma sta facendo riferimento ad un ben preciso uomo: il matematico Teeteto, quello che all’inizio dell’omonimo dialogo platonico vien fatto morire di dissenteria. Il messaggio di Aristotele è allora chiaro: Teeteto passeggia, e ciò significa che è aristotelico – un aristotelico ante litteram –, in più egli passeggia per cacare, e però passeggia invano, e ciò significa che è stitico.

Ora, facendo Teeteto aristotelico, impossessandosi cioè di un simbolo che Platone riteneva di sua esclusiva pertinenza, Aristotele denuncia la propria volontà di rivendicarlo invece, almeno in parte, a sé. Teorizzandolo stitico, quel medesimo simbolo, va oltre, mostrando in merito un deciso intento polemico. È come se dicesse: vedi, a Platone, vedi che quella tua macchina portentosa, che tu pensi produttiva e risolutiva di tutto, quel corpo geometrico pur così fecondo, può trovarsi in imbarazzo? Si trova anzi in perpetuo imbarazzo: sempre in potenza, dice Aristotele gettando le basi del futuro definitivo distacco dal maestro, mai in atto; e allora io mi domando e dico, dice Aristotele per tramite del costipato Teeteto: cosa ci sta a fare quel tuo demiurgo geometricatore, quella mente, quel pozzo di idee, se non è nemmeno in grado di levare d’impiccio il gran corpo intasato del mondo? No, capo, non serve il dio di un intervento occasionale, di un atto unico ordinatore, di un hapax creativo, serve il motore di una costante pratica igienica, di un’ininterrotta azione curativa, di una perpetua peristalsi, che continuamente stimoli, scommuova e smuova il tutto cosmico sin nelle viscere, rivolvendolo e risolvendolo nella perfezione di una eterna lapaxis. Così Aristotele, lasciando tuttavia aperta la questione cruciale, che neppure nelle opere più mature saprà trovare risposta: dove? dove mai passeggia, il costipato Teeteto?

 

Addendum. Il presente lavoro era già in stampa quando l’autore è giunto a conoscenza di una recente ipotesi interpretativa alternativa – che pur non condividendo, riporta comunque per completezza – secondo cui l’uomo che passeggia non sarebbe l’oscuro matematico Teeteto, ma il ben noto filosofo Zenone, impedito a raggiungere l’agognata lapaxis non da personale pigrizia gastrica ma da ben più generale e stringente regola logica (cfr. Confutazioni sofistiche XI, 172a8-9). Come tutti sanno, infatti, egli è costretto a percorrere dapprima metà del suo percorso lassativo, indi metà della metà restante, indi metà della metà restante… e così all’infinito, per modo da non giungere mai a compierlo. Per quanto banalizzante, l’interpretazione ha il duplice vantaggio di risolvere al contempo il problema del dove passeggi mai Zenone – da nessuna parte – e l’annosa questione della bontà e bellezza dello scopo, che in quanto non è, non è neppure buono, né tantomeno bello.

 

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