lunedì 7 settembre 2020

Orizzontali 4




Divagazione



Se mai v’intervenisse di consultare il catalogo del fondo rari e manoscritti della splendida biblioteca dell’Abazia di Saps, e vi movesse a curiosità la presenza, sul verso di alcune schede, di alquante tracce di penna rossa, di mano del XX secolo e di difficile interpretazione, domandatene all’anziano custode: egli vi risponderà narrandovi la seguente storia. 

 

– È lei signorina che ha compilato il modulo?

– Sì, Padre, non ho scritto a stampatello.

– Non è questo. Vede, signorina, e ciò vale ancora per gli altri moduli di richiesta, che immagino siano tutti suoi: non ci capita così spesso di dare in consultazione la Tromba Parlante (o tuba stentorofonica), non per più volte di seguito. In ogni caso non per più e più volte di seguito. Non per più e più giorni di seguito. Ma non è neppure questo. Si tratta della voce argomento dello studio, che sta qui, sul modulo. Spero lei noti le dimensioni della casellina corrispondente, nella quale è appunto inteso esser indicato, per sommi capi, l’oggetto di studio del richiedente: essa eccede di poco, vede?, quella adibita alle di lui generalità: nome, cognome, professione, ed è in fatto quasi equiestesa, se ben veggo, a quella dell’indirizzo.

Ora, i nostri confratelli cui fu a cura la modulistica archivistica è bello pensarli aver agito ancorché non in modo stocastico pur bensì governati da pensiero architettonico, e ipotizzare, a monte del loro agire, se non un fine ultimo buono in sé, almeno un’intenzione dispositiva di ottimizzazione spaziale: il modulo è dunque da intendersi dotato di senso. Quanto al compilatore, ci pregiamo del fatto che l’austerità del luogo (noti la monocromìa degl’interni e l’assenza di stimoli sonori), insieme con la settorialità estrema dei titoli che proponiamo, ci guardi dalla visita importuna dell’uomo medio, spesso in istato deplorevolmente pregrammaticale. È dunque lecito che anche dal dotto frequentatore dell’archivio ci attendiamo una certa dotazione di senso, e di senno: intuirà, ci diciamo, le intenzioni dei progettatori la cedola, e agirà di conseguenza. Perciò, forse per soverchia fiducia nella stimata utenza, non abbiam ritenuto necessario divietare espressamente, con apposita indicazione, di eccedere di troppo, nell’esposizione dei dati richiesti, il perimetro di ciascuna casella del modulo. Ma fummo ottimisti, vedo.

Padre Saverio Tricomi, bibliotecario supremo della Biblioteca dell’Abazia, annesso Archivio locupletissimo, è fermo davanti ad uno dei tavolini, sette in tutto, che la biblioteca, per gentile concessione dell’Arcivescovo, destina e talvolta effettivamente concede, a totale discrezione del bibliotecario, alla spontanea utenza, rappresentata al momento dalla sola signorina, dietro il leggìo con sopra la Tromba Parlante. Padre Saverio è alto e magro, vestito di nero. Anche la signorina, ma si distinguono bene per via dei capelli.

– Mi son domandato, è vero, più volte, e ciò a partire dal primo modulo che lei, ormai qualche tempo addietro, ci ha restituito sconciato a questo modo, che cosa mai mi trattenesse dal mandarla fuori di qui. 

Padre Saverio mostra alla signorina una cedolina totalmente ripienata di una scrittura fittissima, che s’intuisce originarsi nella casella riservata alla breve descrizione dell’argomento di studio ma non in essa si esaurisce. Repleto lo spazio concessogli, infatti, l’oscuro periodare s’impossessa della casella adiacente, e poi di quella adiacente a questa, e così di sèguito, sovrapponendosi e compenetrandosi a nome, cognome, professione ed indirizzo. Esaurita così ogni regione possibilmente scrivenda, giacché la signorina ha l’accortezza di non soprascrivere alla segnatura del testo che va richiedendo, il flusso d’incoscienza verbale si riversa all’esterno, nel margine, ed in esso persegue impassibile, in guisa di incostringibile scolio, il suo oscuro disegno di conquista, espresso in carta nella forma visibile della spirale centrifuga, in corpo asintoticamente decrescente, al limite tendente al silenzio del bordo. S’intuiscono i termini dianormaintubareisoepifanicogesuita; il resto è pura congettura.

– Come vede, ci sarebbe ben di che cacciarla, e a ragione, eppure qualcosa mi ha trattenuto, e mi trattiene. Non qualcosa in lei, beninteso, ma qualcosa in quel suo geroglifico comunicare. Ho cominciato col domandarmi di cosa mai potesse occuparsi, nella vita là fuori, uno che nella cedolina scrive a quel modo. All’uopo ho decifrato una buona metà delle sue richieste: taluna nella sua totalità, altre solo in parte, e non sono ciò nonostante pervenuto a comprendere l’argomento dei suoi studi. Non perché si tratti di materia complessa, ma perché, vede, signorina, lei comincia a spiegarlo qui, a metà del primo modulo, poi però apre una parentesi, una seconda parentesi, una terza… ne ho contate diciannove: diciannove aperte e diciassette chiuse. Già in questo c’è qualcosa che non torna. Ma fossero solo le parentetiche! Poi ci sono gl’incisi, e gl’incisi negl’incisi, e concessive, dubitative, ipotetiche ed interrogative, futuribili e retroattive: un’ipotassi matrioska, direbbe il confratello Viktor, se fosse ancora tra noi. A questo punto, devo confessarle, avevo ormai perso ogni interesse per i suoi insulsi oggetti di studio, epperò aveva cominciato a farsi largo in me un’immagine, un barlume d’ipotesi, un’idea: “Saverio, mi son detto, questa è pura divagazione, divagazione della più spinta. Non forse la più efferata in assoluto, ma di certo la migliore tra quelle, e non son purtroppo molte, di cui tu abbia avuto a disposizione, in vivo, l’autore. Sta a vedere che, nella sua infinita misericordia, Iddio ha messo sulla tua strada l’esempio materiato, il perno inatteso che reggerà la tua costruenda costruzione”. Per questo sono qui; per questo ho lasciato le mie altissime mansioni, per domandarle, col subbuglio nell’anima, l’urgentissima domanda: “Lei scrive sempre a questo modo, signorina? Anche fuori dai moduli delle biblioteche, nei suoi quaderni, sui suoi fogli, nei margini dei suoi poveri libri? Non è che forse, forse lei, signorina, non è ch’è stata forse, un tempo, un uomo di scienza?

– Sì, Padre.

– Sì cosa?

– Sì così scrivo pertutto e sì ho in passato studiato di matematiche, e in parte esercitatele, assai mediocremente, debbo aggiungere, ma con un certo ottuso, garzonale impeto.

– Basta! Non aggiunga altro, la prego!

Padre Saverio è fuor di sé dall’entusiasmo, sebbene poco di tanto estremo sentimento egli lasci trasparire nella figura composta di frate, nel volto asciutto, e nei gesti misurati.

– Proprio come immaginavo. Vede, signorina, è mia opinione che la tendenza a divergere, divertere, divagare, che emerge dai suoi scritti modulari, e che lei mi conferma inerire a tutta la sua produzione letteraria, è mia opinione, dicevo, ch’essa sia in certo modo connessa con talune caratteristiche tipiche dell’uomo di scienza, del fisico e dell’ingegnere in ispecial modo. Ebbi anche modo di sviluppare, e ormai son anni, queste intuizioni in forma di una picciola teoria sul moto divagatorio. Oltre ad una sui flemmoni e l’erisipile, che però qui non c’interessa. Quella del moto divagatorio invece è molto bella e son anni che cerco di spiegarla a qualcuno, ma non mi ascoltano. Proverò con lei, che in quanto parte in causa è nel suo interesse non soltanto starmi a sentire, ma anche recar conferma, particolare e personale, alla teorica generale che son andato formulando nel tempo. L’idea è questa, che chi divaga non agisca in regime di arbitrio totalmente libero, come chi scrive invece in modo ordinato e lineare, ma sia in qualche modo costretto da vincolo: ha presente il pianeta nel campo gravitazionale?

Sotto l’azione del forte entusiasmo Padre Saverio prende un foglio a caso, una scheda, e sul retro traccia colla penna rossa un rapido schizzo: una palletta raggiata che rappresenta il sole e accanto una palletta semplice, più piccina ma comunque non in scala, a funger da pianeta, poi s’interrompe: solleva la penna:

– Ma lei sa di fisica?

– Sapevo. Fui per un poco a bottega da un russo: grandissimo studioso e sommo maestro: matematico di professione e fisico di genio. Quasi come quei due cialtroni con cui iniziai gli studi, anch’essi portatori di titolo accademico. Solo che l’uno, pensi, portava anche i mocassini senza calze e in quanto sedicente filatelico, oltreché relativista, fece sparire con abile trucco i francobolli del mio babbo, che ancora, e amaro, mi resta il rimorso, come d’irreparabile guasto, come quando ingiusta feci rampogna, e importuna, al fratello per rompimento di lume. L’altro, il compare nonché allievo, portava una certa insignificanza dell’essere suo tutto, e forse anche per questo, per darsi un senso, penso, fece suoi quei pochi risultati che insieme, con grande sforzo epperò con vantaggio nullo per il resto del genere umano, avevamo io e lui prodotti.

– Ma dunque lei sa di fisica?

– So.

– Bene, ciò mi consentirà di esporle in forma più succinta, rigorosa e se sarà il caso anche tecnica la mia teoria, che denominerò già da subito Teoria Geodetica della Divagazione – Padre Saverio scrive queste parole a stampatello, pigiando forte colla penna rossa sul foglio ­–, così lei comincia a farsi un’idea di dove andremo a finire. Non serve infatti che le spieghi, come mi tocca fare coi confratelli digiuni di matematiche, cos’è una curva geodetica, o più semplicemente una geodetica, giacché lei ben sa ch’è la traiettoria seguita da un corpo di prova immerso in un campo di forze. – Il Padre torna sul disegnino e traccia un’ellisse, con centro nel sole e passante per il pianeta – Qui – indica la curva – grossomodo qui, andremo a finire, al tempo, e ciò sia detto. Ora però le chiedo, e mi chiedo: “Da dove partiremo?”– Dopo aver tracciato un grande punto interrogativo, sopra l’ellisse, il sole e il pianeta, Padre Tricomi si volta improvviso verso l’interlocutrice, gli occhi in fuori sotto le sopracciglia innaturalmente arcuate: l’espressione è tra l’interlocutorio e il giubilante. Prosegue: – Sapendo di parlare anche per lei mi rispondo che partiremo dall’inizio. Dall’inizio, ma non dal princìpio, potrebbe farmi giustamente osservare lei, ché là appunto arriveremo solo alla fine. Lei ben sa infatti, e ben m’insegna, signorina, che cominciamento, e fondamento di ogni umana fabrica è l’ottusa realtà del dato: non il tetto ma il pavimento – disegna una casetta –, non il tegolo ma il sasso, il vil sasso calpesto – pesta forte con le scarpe nere, di finissimo cuoio, sul pavimento a mosaico – ch’è come dire il dato di fatto, e il fatto osservato. E cosa mai abbiamo osservato, signorina, se non che gli scrittori (e non parlo di scrittori di cedole, come lei, ma di scrittori veri, scrittori di libri) divagano? – La signorina annuisce – Vedo che siamo d’accordo, e siccome non è un accordo personale, tra me e lei, ma un accordo universale, un fatto su cui tutto il genere umano deve concordare, non sarà azzardato farne il nostro primo, indimostrabile, assioma – scrive uno, in cifre, sul foglio –: Assumiamo, qual caso particolare dell’ipotesi aristotelica dell’esistenza in natura del moto naturale e del relativo soggetto naturalmente mobile, o corpo naturale, l’esistenza in letteratura del moto di divagazione e del relativo soggetto arbitrariamente mobile, o corpo (umano) divagante. Ma poi lei sa quanti sono questi umani divaganti, signorina?

– Tanti, immagino.

– Tanti, sì; e non solo tanti, ma tantissimi, le dico, e non solo tantissimi ma troppi. Troppi in ogni caso perché uno possa prenderli in considerazione tutti. E allora sa cosa fa lo scienziato?

– Sceglie un campione?

– Brava! Sceglie un campione. E come lo sceglie?

– Sufficientemente ampio e casuale, se vuole che i suoi risultati abbiano valore statistico.

– Brava! Io avrei scelto Edoardo Cacciatore, Carlo Emilio Gadda, Giorgio Manganelli e Cesare Mazzonis.

– E poi?

– E poi basta. Le ho detto ch’è solo un campione.

– Sì ma non è né ampio né casuale, mi pare, dunque le sue conclusioni, quali che siano, non potranno avere valore statistico.

– Infatti io voglio che abbiano valore assoluto, ma non mi interrompa. – Padre Tricomi ripiglia la penna e segna le iniziali dei quattro: C G M M – Ora, se lei osserva, converrà con me che, essendo stato il Gadda un ingegnere ed essendo il Mazzonis un chimico, possiamo affermare che due divagatori su quattro – sottolinea con un tratto di penna la G e una delle M – e cioè il 50% degli scriventi divagatori sono anche scienziati. La significatività della percentuale non può non indurci, e come scriveva un nostro confratello: “nelle materie filosofiche l’induttione è una gran pruova”, a postulare l’esistenza di una correlazione tra attitudine divagatoria ed educazione scientifica. Generalizziamo anzi la correlazione a nesso causale e facciamone teorema; scriva: Sia dato un uomo qualsiasi U, ambosessi, intellettualmente adeguatamente dotato. Lo si sottoponga ad un corso di studi scientifico: ad esempio U diventa ingegnere. Si afferma che questo ingegnere E, prodotto della trasformazione U ® E, sarà anche un potenziale divagatore. Dimostrazione.

La dimostrazione non sto qui a formalizzargliela, ma l’osservazione cruciale è questa: qual è il compito dell’ingegnere, o più in generale dello scienziato? Che è come dire: cosa gl’insegnano, al futuro ingegnere, nei luoghi a ciò adibiti? Ci pensi, signorina, non è difficile, lo dice anche Mach: gl’insegnano a fare modelli: modelli teorici e modelli meccanici, e cioè ruotismi, il più possibile economici, e dunque maneggevoli, per mezzo dei quali descrivere, formalizzare, riprodurre, ed eventualmente prevedere il mondo. Il che significa, in altri termini, linearizzarlo, giacché solo un mondo semplice e lineare, deprivato d’ogni impedimento, risulta di fatto descrivibile, formalizzabile e prevedibile. Vuol far lo scienziato? Bene, faccia innanzitutto un poco d’ordine. Come dice? C’è un’escrescenza? La poti! Una curva? La raddrizzi! Una graziosa esternazione geografica? La mortifichi! Non stia a calcolare il sito dei burroni, l’altezza dei macigni, gli abissi dei catrafossi…

– Credo di capire, Padre, è come dire che in fondo dobbiamo ridurci sempre al problema del corpo rigido.

– Lo dica come crede, badando però a come parla, se vuole un consiglio, ché non tutti i frati sanno di meccanica. Ad ogni buon conto io riassumerei la cosa in termini meno ambigui: Punto Primo – Padre Saverio ha cambiato foglio e scrive: Uno, in cifra: lo scienziato deve ridurre a ragione il mondo.

– Peccato, signorina, che il mondo non la pensi allo stesso modo, cosicché la vostra folle aspirazione all’eliminazione del dato superfluo, il vostro ottuso anelito a lisciare il cosmo, nel cosmo stesso si scontrano con la naturalissima riluttanza delle cose tutte alla semplificazione: e mentre voi vi ostinate, misurate, ordinate, precisate e computate, intanto le cose ridondano, molestamente divergono, eccedono la misura ed errano il computo: Punto Secondo: il mondo non può, e non vuole, esser ridotto a ragione.

E qui veniamo ad un bivio. Già, perché è mia esperienza che gli scienziati si debbano suddividere in due grosse categorie: gli scienziati che colgono l’incompossibilità dei Punti uno e due, chiamiamoli scienziati di tipo B, e quelli che non la colgono, o scienziati di tipo A. Ciò deriva, almeno io mi son fatto questa idea, da due diversi modi di intendere la locuzione ridurre a ragione

L’appartenente al primo gruppo, o scienziato di tipo A, interpreta il costrutto nel senso della baldanza teologica: facendo appello ad un’accorta variatio egli elimina quanto di riduttivo sia contenuto nell’atto del ridurre, e vi legge in luogo un più impegnativo, solerte ma al contempo rassicurante ricondurre. Dice: “ricondurre a ragione” ma è come se dicesse: “costringere alla ragione”: come l’idraulico costringe a ragione la tazza del cesso, e il matematico russo l’equazione differenziale: con le mani. E va di forza perché sa che può andar di forza, perché sa che nell’andare non va a caso, ma segue la trama nascosta, e la trama non lo riconduce alla ragion sua limitata, su cui dovrebbe meditare, e contrirsi, ma alla ragione estesa, prima e ultima, unica e universale del Dio Geometra, asconditor di formole e creator di cifre, che nella settimana della creazione enigmistica scrisse il libro della natura, ma lo scrisse illeggibile.

Lo scrisse infatti in caratteri matematici, come correttamente afferma l’arcivescovo Pitagorico, e l’uomo sapeva di matematica. Ma poi l’uomo ha peccato, ha conosciuto l’errore, e più non vi ha letto se non dubbio: e allora è come se ai numeri dei formuloni divini, di per sé chiari, in bella grafia vergati da mano sapiente, avessero preso a crescere dei peduncoli, degli apici e dei pedici, degl’indici e dei manici, che prima si son sommati e sottratti, e divisi e moltiplicati, e slungati a potenza e poi si son tratti in radice, avvoltolati e protrusi, e ancora si protrudono e producono in falsi accrescitivi, postille inopportune e glose fuorvianti, fino a che la barchetta del testo è parsa naufragare e la funzione stava disintegrandosi negli scolii. Se non che Iddio s’è ravveduto, e ha mandato il nochiero salvatore, lo scienziato potatore: come Uno che prima abbia fabbricato il labirinto ma poi anche il Teseo, il qual Teseo dopo aver preso il timone e salvata la barchetta, impugnate le cesoie e sfrondato il roveto, raddrizza il labirinto, e non sente seghe, ché sa che al fondo, rovesciata, c’è sempre la soluzione.

E taluni, le parlo per conoscenza diretta, signorina, taluni sostengono pure di averlo visto, il formulone, dietro lo scolio, come di rupestre miracolosa Madonna, e dicono arriveranno ad acchiapparlo: per questo approntano il trappolone; solo che di loro certi sostengono sia grandissimo e certi piccolissimo, ma ciò soprattutto in passato, mentre certi altri hanno più di recente elaborato teorie secondo cui è sì grande, anzi più che altro lungo, ma altresì sottilissimo. Conosco anche chi sospetta sia mutevole di aspetto, ma va detto che tale atteggiamento ha dell’antiscientifico, e in ogni modo sorge il problema di come si ponga, essendo esso stesso la legge e la formula dell’essere dell’Universo tutto: come di chi si definisca nell’andar facendosi. O forse sta fermo.

– Lei esagera, Padre, e più che altro generalizza.

– E lei m’interrompe a sproposito, signorina, e mi toglie continuità di pensiero e consequenza d’eloquio. Le ho detto prima che questi non son gli scienziati in generale, ma solo quelli di tipo A. Le avrei detto poi anche, se lei avesse avuto la creanza di darmene agio, che non son essi che c’interessano, ma gli altri, quelli che in principio ho denominato di tipo B. Questi scienziati di tipo B, tra i quali mi son fatto l’idea di dover annoverare anche lei, son quelli che sin da subito intuiscono quanto di riduttivo sia contenuto nell’atto del ridurre a ragione. Essi leggono ridurre come ridurre, diminuire, sfrondare, tagliare, asportare, mutilare, menomare, spurgare, decurtare, e pur comprendendo la necessità della loro funzione potatoria non ne cavano solo baldanza, come facevano gli altri, non soltanto pregio, ma anche forte fastidio.

Accade infatti a questi poveracci che non per l’eternità, ma solo fino ad un certo punto, chiamiamolo t segnato – Tricomi traccia su di un nuovo foglio bianco una t minuscola sormontata da un tratto orizzontale – essi vivon nell’illusione di poter far calcolo e modello di tutto. In quest’infanzia spensierata e felice, è vero, non si distinguono di fatto dai confratelli di tipo A: come loro infatti potano, e potano con gioia, e poi scartano, e ancora incuranti dello scarto gioiscono. Già, perché quel che scartano l’hanno prima molto opportunamente denominato accidentale impedimento e ne hanno di conseguenza molto convenientemente giudicata la rimozione non solo tollerabile ma auspicabile, e non solo auspicabile ma buona. E giusta. Essi sentono infatti, nel loro agire eliminatorio, la responsabilità di chi decide, e la interpretano però, in questa fase aurorale, nel senso dell’autorità di chi separa; così da cavarne non dubbio, non frustrazione, ma al più un sordo delirio di onnipotenza: l’occhio affiso ai modelli modellabili, la mente intesa ai numeri numerabili, troppo impegnati a contemplare il grano che tengono, immantinente scordano il loglio che han gettato: che faccia radice altrove!

Peccato che altrove non sia lontano, signorina, e poi quella è erba trastulla, che cresce loro nel capo, signorina, e cresce col residuo, col detrito e coll’accidentale impedimento: crescono insieme e s’aggrandiscono, fanno massa, e divengono a mucchio. E il mucchio cresce, cresce e cresce, fino a che, al tempo t segnato, appunto, essi cominciano a percepirne, quasi fisicamente, il peso e la pena. Già, perché, a differenza del collega di tipo A, lo scienziato B non ha così netta la nozione del bene e del bello, e non può dunque affermare con certezza che lo scarto sia male, che il detrito sia brutto, che l’impedimento sia accidentale, inutile, nocevole, o non che altro trascurabile: è come vederlo, signorina, a bordo del suo apino carico di macerie, divenuto del tutto ingovernabile, lo scienziato B comincia a divergere. – Saverio scrive: Punto Terzo: Sull’apino troppo carico di macerie, lo scienziato sbanda. – Comincia egli infatti, dapprima quasi impercettibilmente, a prestare attenzione via via crescente al dato inutile, all’ipotesi ridondante e all’alternativa poco plausibile: draghi, nani, balene, blatte e badalischi cuspidati. Prende quindi a perdere facoltà di circoscrivere, e irrimediabilmente inetto a tenere contegno acconcio deroga all’esplicazione rigorosa, e si risolve ad elencare e collezionare, e mostrare qual pittore di maniera i fatti, le cose e le parole. Si disaffeziona infine al numero e l’affastidia il metro, ma l’attrae invece il groviglio e mette in pregio il galappio e come da misteriosa forza vinto, da necessità indotto e non diletto, gira e rigira, vaga e divaga, i viluppi intestini vergognosamente estroflessi in inchiostri sterminati…

– Scusi, Padre, temo di non aver ben compreso le ultime parole.

– Poco avvezzi alla metafora, oltretutto. Le sto dicendo che lei, e dico lei per dire i suoi amici scienziati, con quella vostra smania linearizzatrice, avete tagliato troppo: tutti i montarozzi e le escrescenze che v’impedivano di far tonda la terra; gli attriti che vi rallentavan la caduta e tutte le altre scabrosità che v’ostacolavano i moti: le code delle comete, i peli dei nuotatori, la polvere negl’ingranaggi e l’edere sui ponti. Ora, tutta questa robaccia, che lei pensava di aver eliminato, l’aveva di fatto solo messa da parte: vero che i pezzi, presi uno per uno, eran trascurabili, ma a forza di aggiungerli uno all’altro lei è giunta infine a farne mucchio, e il mucchio, cara signorina, quello, come le insegnano i filosofi, non è più trascurabile.

– Ma è terribile, Padre!

– E non ha ancora sentito il meglio. A dirle vero nessuno ha ancora sentito il meglio, ché di solito a tal punto e non oltre mi seguono i confratelli, poi anche i mansueti s’impazientiscono. Non credo poca curiosità dell’intelletto, forse scarsa abitudine all’argomento, e fors’anzi è bene non impor loro l’arido dettaglio del teorema, ché sarebbe infondo come volersi pascere a barbabietole gli anitroccoli, che le ricacano tali e quali, senza trarne giovamento alimentare il papero, che non ne sugge la midolla a farne ricca sugosità nutritizia agli anitri suoi villi intestinali e viscerame imbricato, e senza però nemmeno trarne giovamento concimativo la terra, che non tiepido e capreolato escremento, bene digerito e fermentato, riceve in seno, a farne ricco mangime agli altri figli suoi, in ciclo alimentare sechiudentesi, figura divina a significare la regolata perfezïon del tutto.

– Io avevo un gatto arancione che mangiava gli asparagi.

– Io avevo un bel tomo in quarto grande con dentro scritto che l’esser savia una femmina è prodigio. Sia cortese, non mi faccia perdere altro tempo. Si ricorda quando all’inizio le feci l’esempio del pianeta, dicendole che analoga è la condizione del divagatore? Non parlavo per metafore: torni a quel suo mucchio di scarto. Io le dico che come il pianeta, o qualsiasi altro oggetto massivo, in virtù della sua massa, o carica gravitazionale, interagisce col campo gravitazionale, ed in esso si muove lungo traiettorie ellittiche, o altre sezioni coniche, allo stesso modo lei, o qualsiasi altro possessore di scarto, in virtù del suo mucchio di pattume, che denomineremo d’ora in poi carica barocca, o maniera, interagisce con un suo specifico campo, un campo sinora ignorato dagli studiosi, che io stesso ho scoperto e opportunamente denominato campo barocco, ed in esso si muove lungo traiettorie sghembe. Questo è il Punto Quarto, il punto cruciale. E badi che non sto più parlando dei soli scienziati di tipo B, ma più in generale di qualsiasi soggetto portatore di scarto, vale a dire di qualsiasi soggetto manierato.

E ora veniamo alla parte tecnica. Le ho detto che la carica barocca, o maniera, è l’equivalente della massa gravitazionale. Com’è bene che sia, la massa essendo una quantità, si è usi misurarla. Bene, io le dico che anche la maniera è misurabile.

– E come si misura, Padre?

– Come si misura, come si misura… Come si misura la massa, signorina: si prende un’opportuna unità di misura, tipo un chilo, e si vede quante volte sta nell’oggetto da misurare. In un dromedario stanno circa seicento chili, dico il dromedario per dire. E qui per un chilo, o un chilogrammo (Kg), intendo come da convenzione l’unità campione di massa, ossia un blocco di platino-iridio. Bene, per analoga convenzione prendo come unità di misura della maniera il grado Clavius (°C), e come unità campione, corrispondente al valore di un grado, un ghiandolone fegato. Ora basta prendere un  grado Clavius, vedere quante volte sta nell’oggetto da misurare, ed è bell’e che trovata la sua carica barocca: il dromedario, per restare al nostro esempio, ha carica dieci. Analogamente, può fare lei stessa la misura, otteniamo circa due gradi per il vispistrello, il polpo, l’umbilico e gli escrementi in genere; via via crescendo, qualche decina di gradi Clavius per l’Arcivescovo, il geco, l’umbilico peloso, l’interiezione eziandio, le mani di Cosimo del Pontormo e quelle di Veronica Migliarini e poi a salire i versi di Ripellino, quelli del Lubrano, certi lumi da notte, i cherubini, e ancora la blatta bisanzia, gli orologi a pendolo, i temporali, i grandi temporali, le tormente… All’inizio uno fa fatica, ma ben presto si avvezza alla prassi e non vi presta più attenzione, come a tutte quelle realtà consolidate, chessò, il filobus. E ciò sia detto per semplice erudizione.

– Più che alla massa, Padre, questa sua maniera mi somiglia però alla carica elettrica.

– Brava, io uso la massa perché i confratelli, di norma elettricamente neutri, hanno con la carica meno dimestichezza. Vero è che l’analogia con l’elettrico, a farla lor intendere, mi semplificherebbe non poco le cose. Ho infatti grande pena ad addomesticarli ai valori negativi di maniera, le dico solo il triangolo isoscele, l’acqua, gli articoli scientifici, e alla possibilità di combinare (somma algebrica) oggetti positivamente e negativamente carichi, eventualmente annullando la maniera totale. Avevo anche pensato di ovviare al fastidio introducendo una differente scala, che per venir loro incontro ho denominata scala assoluta, o Kircher, ma anche quei pochi che avevan fino ad allora fatto mostra di seguitare il ragionamento, con ciò andavano ahimé in confusione.

– Anch’io vado in confusione quando mi chiedono di passare dal metro al piede liprando.

– Poi c’è da dire che anche quest’altra analogia cade, perché, vede signorina, mentre la carica elettrica si dispone con ordine sulla superficie del conduttore e la massa del grave può ben essere pensata concentrata in un solo, baricentrico punto, ho osservato che molto più subdolamente la carica barocca ha spiccata tendenza alla distribuzione stocastica. E non solo in corpo all’oggetto manierato, ma financo nell’idea medesima d’esso, con conseguenze che vanno oltre ogni analogia. Lei converrà del resto con me che il pensare ad un’incudine non aumenta la massa di chi la stia pensando, ché sarebbe comodo allorquando ci venga proposto l’equivalente del nostro peso in oro pensare fortissimo ad un pullman; sappia per contro che basta l’idea di un corpo fortemente manierato per alzare la carica barocca di chi lo stia pensando, o ricordando, o anche solo sognando.

E poi c’è un’ulteriore fondamentale differenza, che spiega perché mentre quella del campo gravitazionale è esperienza universale: sua, mia, della mia penna – Tricomi la lascia cadere a terra – della sua Tromba Parlante e di tutto ciò che compone questo meraviglioso universo d’Iddio, quella del campo barocco è invece esperienza di pochi: sua ma non mia, per esempio. Il punto sta nella dipendenza della forza di interazione dalla corrispettiva carica. Come è giusto che sia, in tutti i casi la dipendenza è lineare, ma – Padre Saverio traccia sul foglio i due grafici seguenti:

FegFig1

– ma, vede, signorina – ed indica il grafico di sinistra – mentre qui la retta parte dall’origine, il che significa che non si dà corpo dotato di massa, per quanto minima, che non risenta del campo gravitazionale (e lo stesso vale per il campo elettrico), il campo barocco – ed indica il grafico di destra – non si dà cura dei corpi troppo poco manierati. Vede, signorina, la provvida natura ha disposto una soglia alla maniera, una sorta di valore critico al di sotto del quale non si rilevano interazioni: se la maniera è minore o uguale di 37°C, e cioè se il mucchio di pattume è troppo piccolo, si ricorda?, allora il soggetto possessore non risente del campo; il soggetto è sano, come me. Al di sopra dei 37 gradi Clavius, però la maniera degenera in febbre ed il soggetto è da classificarsi come malato: solo il soggetto malato, come lei, risente del campo barocco. È qui infatti, signorina, sopra la soglia, oltre il segno, che lei è entrata in interazione col campo barocco, e il campo barocco l’ha ghermita, l’ha affatata e l’ha rapita, e l’ha costretta e sempre la costringerà, e iteratamente la tribolerà sulle sue geodetiche.

– Non sia catastrofico, Padre, anche il campo gravitazionale fa lo stesso col pianeta, col sasso e con la cometa, non vedo in ciò nulla di terribile.

– Già, perché lei non conosce le geodetiche del campo barocco. Lei pensa alle rette, vero? Ai cerchi, all’ellissi e alle iperboli, vero?

– Sì, pensavo.

– Eppure mi pareva d’averla messa sulla buona strada.

– Ma è stato lei a far l’esempio del pianeta, all’inizio.

– O non capisce, o prende le cose alla lettera. Sono analogie, signorina, reggono fino a che possono, poi bisogna avere il coraggio di abbandonarle, come coi braccioli, al mare da piccoli. Per fortuna mi capita di rado di aver a che fare colle donne. Ripeto: il campo barocco somiglia, capisce?, somiglia a quello gravidico, se non che è diverso. Capisce? In particolare, ha diverse le geodetiche. Quelle della gravitazione, come pure quelle dell’elettrico e in generale di tutti i campi noti, sono, è vero, curve buone, lisce, direbbe qualcuno, dove l’esser buona di una curva significa ad esempio non piegarsi ad angolo, semmai inarcarsi dolcemente; non biforcarsi né interrompersi improvvisamente ma docilmente prestarsi alle derivazioni, anche successive, ed intersecarsi con parsimonia. Se ne consideri un tratto finito: è possibile stabilirne inizio e fine, percorrerlo e misurarne la lunghezza. D’altro canto, le geodetiche barocche si mostrano invece angolose, puntute e spigolose. E però sono al contempo morbide, labili e inchinevoli. E sopportano le peggio singolarità: cuspidi e nodi, cappi e galappi e anche buche. Si stribbiano – sa? – e anche s’arrestano, ma le dico che detestano essere derivate, anche solo una volta. Però s’intersecano; s’intersecano con soddisfazione e si avvitolano, si aggrovigliano, si arroncigliano e si asserpentano, e poi però si ragnano, si sgomitolano e si biforcano. Erratiche e isteriche, eccedono, si proboscidano e s’ingravidano, s’ingrossano e si sgrappolano, sparnazzano e si slontanano, e slontanandosi largheggiano. Fingono di arricciolarsi – sa? – e invece si sdipanano, si avvoltolano e svoltolano. Vorrei poterle dire che son traiettorie, ma traiettorie non sono. Forse son tracce, ma tracce travagliate, di un dimenarsi tarantolato. O forse son proiezioni di tracce, ma proiezioni su piani sghembi. Vorrei poterle dire che son itinerari, ma poco tengono dell’itinerario: partite dal punto X alla volta del punto Y non lo raggiungono se non asintoticamente. Più spesso si perdono in preamboli. – Tricomi ha riempito il foglio di un groviglio inestricabile di linee rosse: – Mi segue?

– A tratti, Padre.

– Brava, continui: pensi forte al Lubrano e veda di starmi dietro, signorina, la prego, anche se il camminamento è disandevole, discosceso e disquassato, centrifugo e centripeto, e non allontana ma neppure stringe, avviluppa e contiene ma il dentro non c’è: solo sempre fuori, involgimento vuoto, pitturato e macchinoso, che dimena le anche a distogliere lo sguardo dal resto che manca, ma non è chiaro se manca dall’inizio o va dissolvendosi in cerca, in cerchio, incerto danzando un ballo antico, un ballo storto, un ballotondo che alla fine casca il mondo, casca la terra… o una mazurca da ballarsi ginocchioni, sui ginocchi… Oh! Padre, Padre Saverio, Padre scrivano, nochiero e nostromo, cos’aspetti, infine, con tono amichevole, alla signorina, cosa aspetti a portarle, dopo tante parole, infine un esempio? O se non si può l’esempio, almeno un segno, un gesto con funzione indicativa, o non che altro solidale, come di cartello indicatore con su la scritta “Voi siete qui”, che nulla insegna a chi si è perso ma suggerisce che da quello stesso posto sia già transitato in passato qualcun’altro, e fa compagnia. Cosa aspetti, Padre, ad abbandonare infine la teoria e passare al vero: Signorina, lei ha mai sentito parlare dei fenomeni di deformazione anomala del campo gravitazionale?

– Non so, non credo, cosa intende di preciso?

– Una cosa molto semplice: ha presente quando certi oggetti massivi, che dunque naturalmente si dovrebbero muovere lungo ellissi, o in prima approssimazione lungo cerchi, si osservano invece orbitare lungo una lemniscata? – Il Padre disegna su di una nuova scheda una lemniscata, una sorta di otto coricato e molto allungato – Ciò accade per esempio agli esseri umani, come ha di recente osservato un poeta a me molto caro: “Notavo che ognuno di noi, per ogni accidente della sua vita, è costretto, anche senza saperlo, ad incurvare la descrizione di un circolo”, e accade ai pianeti, come affermò, anni addietro, un curioso confratello, quello stesso dell’induzione: “Iddio altro non fece che torcer un solo invisibile circolo, quello ch’è la via per cui camina il Sole”. Ma soprattutto ciò accade agli insetti volanti. Lei conosce Pizzuto?

– Sì, Padre.

– Femmina petulante, ma di gusti ricercati; e si ricorda: “centripeti come dei mosconi instancabili otteggi otteggi intorno immutato luogo”?

– Certo che me ne ricordo, Padre, Testamento nove.

– Bene. E Gadda? Quando parla del moscone che “ronzava rumoroso, in una vibrazione metallica di che raggiungeva gli acuti con certe virate o controvirate a otto, ebbro, quasi, d’esservi astretto dalla fatalità rinnovata d’un campo gravidico sui generis: d’un campo escogitato, per la nuova storia, dal Pippo dei mosconi giovani: dove all’ellisse della orbitazione newtoniana si fosse sostituita la lemniscata”?

– Pure mi ricordo.

– Ebbene sa cosa le dico? Che non è il Pippo dei mosconi giovani che torce l’ellisse, no davvero, signorina, e sa chi è?

– Il campo barocco?

– Brava! vedo che comincia a capire. Il moscone era ovviamente un moscone barocco, anche se ciò evidentemente sfuggì al Gadda, e si trovava accidentalmente a volare in presenza di una sorgente di campo, anch’essa inspiegabilmente ignorata dall’autore, altrimenti giudizioso accoglitore della baroccaggine del mondo. È sfuggito a lui ma non poteva sfuggire a noi, cara la mia signorina, perché si tratta di un immediato corollario della nostra teoria: la più semplice geodetica del campo risultante dalla sovrapposizione dei campi gravitazionale e barocco è infatti una lemniscata. – Tricomi prende il primo foglio, quello con su disegnata l’ellisse, e lo storce, così. –  Lascio a lei, ch’è un facile esercizio, la dimostrazione. Piuttosto, passiamo ad un altro esempio, che vedo ci si trova a suo agio. Conosce il Maestro? Sa cosa dice della generazione delle femmine?

– Parmi di ricordare nulla di buono.

– Dipende. Dice la produzione della femmina non trovare una giustificazione in sé, ma esser pur tuttavia spiegabile in termini finalistici, in quanto fallimento dello scopo, o deviazione dalla retta via, che sarebbe la produzione del maschio. Riconduce poi, e questo è quel che ci interessa, il mancato raggiungimento del fine ad una qualche perturbazione delle condizioni iniziali, individuate nel movimento del seme e nella materia dell’uovo: se il movimento è quello che deve essere, e informa correttamente la materia, allora si genera il maschio, se il movimento non è ben dominato, ovvero la materia non è ben disposta, si genera la femmina; o il mostro, nei casi più deteriori. – A scanso di equivoci, Padre Saverio non disegna nulla.

– A differenza del Gadda, Aristotele è molto chiaro al riguardo: in ambo i casi egli riconduce infatti il guasto ad un eccesso di scarto, da lui denominato residuo, che ottunde la materia e ostacola il movimento. Come di preciso il residuo agisca, Aristotele non dice, e non poteva dire ché ancora non sapeva di campi, ma noti come vada di presso al vero osservando che il fattore perturbativo non ha origine solamente interna, ma anche esterna: a parità delle altre condizioni egli osserva ad esempio una molto maggiore incidenza di nascite di femmine nei concepimenti avvenuti in tempo di venti da sud, assai ricchi appunto di residuo (perittwmatikwvtera). Come vede, l’intuizione è corretta, anche se la spiegazione non è completa.

Se all’intuizione di Aristotele lei aggiunge però l’acuta osservazione di Sterne, e voglio sperare lei conosca Sterne, il quale individua, ed esplicitamente indica, nel grande orologio a pendolo (a large house-clock) improvvidamente evocato dalla madre all’atto del concepimento di Tristram Shandy il fattore esterno di disturbo del movimento di cui sopra, disturbo che egli pone alla radice di tutte le storture di Tristram, attitudine alla divagazione in primis, ottiene un quadro in perfetto accordo con la nostra teoria. Tanto il residuo evocato da Aristotele quanto l’orologio a pendolo dello Sterne sono da ritenersi sorgenti di intenso campo barocco, al quale campo è dunque da attribuire in ultima analisi la perturbazione del movimento del seme, ad opera di spiriti vitali o dello pneuma, poco c’interessa, che imprime alla materia non la forma debita, ma una sorta di forma barocca, più o meno deviante a seconda dell’intensità del campo. Bello, no? E ci sono milioni di altri esempi: prenda quelle persone che mentre lei sta loro facendo un discorso, a voce ma spesso anche al telefono, pigliano un foglio e così, macchinalmente, iniziano a guastarlo apponendovi, in calce a qualche rapido appunto, o annotato indirizzo, tutta una folla di tratti a penna, all’apparenza privi di significato: casette, cagnuoli, losanghe, gomitoli, astri… Dal nostro punto di vista si tratta di soggetti di norma sani, ma molto prossimi alla soglia di febbre, che mentre si trovano, didentro, a pensare a qualcosa di molto barocco, ecco, nello stesso tempo si trovano improvvisamente esposti, di fuori, ad una potente ed improvvisa sorgente di carica: immersi nel campo, essi ne assecondano dunque momentaneamente la geometria perversa. Data l’origine casuale dell’accumulo di carica, che di solito segue dal concorso accidentale di cause altrimenti scorrelate, nella più parte dei casi si tratta di episodi di breve durata: qualche minuto, giorni, al più settimane, ma poi il problema si risolve da sé. Ho anzi osservato, per quel che concerne l’apposizione macchinale del geroglifico, una notevole diminuzione dei casi in concomitanza con la graduale diffusione dei telefoni senza fili. Il che mi conferma nell’ipotesi che una notevole carica barocca fosse da attribuirsi al vecchio filo del telefono, quello solenoidale, che collegava la cornetta alla base. Specie, aggiungerei, quando dopo qualche anno di utilizzo sconsiderato, di solito da parte delle donne, esso andava incontro ad un irreversibile intorcigliamento delle spire. Purtroppo non ho più modo di verificare l’asserto.

Né la cosa, a dire il vero, m’interessa più di tanto. Perché vede, signorina, come già le accennavo, tutti gli esempi che le ho portato sinora: la deviazione del moscone, l’insorgenza della femmina e la produzione degli scarabocchi son tutti casi di interazione casuale, circoscritta e limitata. Si danno invece casi, e son questi che m’interessano, casi in cui il fenomeno tende a ripetersi. Come in presenza delle divagazioni isolate, l’attacco è improvviso e circoscritto, ma non è isolato né pertanto troppo inatteso. Nella maggior parte dei casi le ricadute sono anzi periodiche, con periodo in buona approssimazione fisso. Febbre effimera, direbbe Avicenna. Ha presente Avicenna? Ne ha proposte ventidue cause; ha capito bene: ventidue, e non sa quanti rimedi, ma son tutti palliativi, mi creda. Il punto è che non avevano capito dove stava il problema. Che sta, come lei m’insegna…

– Nel campo barocco…

– Brava! Nel campo barocco: anche in questi casi occorre infatti ipotizzare che il soggetto sia divenuto sensibile al campo in seguito all’esposizione ad una qualche sorgente di carica, che ne ha innalzata la maniera; solo che ora l’esposizione, per quanto inconsapevole, non si può più supporre del tutto casuale. Consideri, a conferma di quanto le sto dicendo, il fenomeno delle estasi mistiche.

– Scusi, Padre?

– Estasi mistiche, ha presente Maddalena de’Pazzi, che “quando era communicata, si sentiva subito tirata dallo Amore appunto come fa la Calamita il ferro, e in tal modo esso Amore legava l’Anima sua, che rimaneva astratta da i sentimenti corporali”? Ciò le accadeva spesso: attacchi improvvisi e circoscritti, con ricadute periodiche, proprio come le stavo dicendo. Deve appunto tener presente che qui parliamo di soggetti, quelli a vocazione mistica, che in quanto elementi di una comunità religiosa, ed in quanto tale frequentatori abituali di luoghi ad altissima concentrazione di decorazione, risultano quotidianamente esposti a potentissime sorgenti di campo. Come vede, la santa s’era avvicinata più d’ogni altro alla vera causa del problema.

Ma veniamo a noi, a lei intendo, e cioè all’ultimo caso, il più raro ma anche il più interessante, del soggetto la cui interazione col campo barocco, manifestatasi in una certa forma ad un dato istante t segnato, rammenta?, si protrae poi in forma sempre più acuta e senza limite di tempo: malattia cronica, o febbre erratica: rara e confinata a poche categorie a rischio. Come la sua, e di tutti i suoi amici scienziati di serie B

Come ebbi modo di spiegarle all’inizio, infatti, essi contengono in sé, in quanto corpi, e nei corpi materialmente figurata, una carica barocca di base, lievemente e casualmente variabile da soggetto a soggetto, che ha origine banalmente fisiologica: fegati, intestini, dita, gomiti, bile…

– Anche la bile, Padre?

– Anche la bile, anche se di fatto essa meriterebbe un discorso a parte, in quanto residuo ad accumulazione non puramente materiale ma anche metaforica, il che la collocherebbe a rigore a metà strada tra i visceri materiali e lo scarto teorico. Ora non posso approfondire oltre l’argomento, ma lei si legga il De Partibus, dove Aristotele tratta in dettaglio la questione dell’inutilità della bile, in una prospettiva assai vicina a quella da noi discussa del residuo quale scarto. Sempre nel De Partibus troverà del resto un’ampia discussione sulla ridondanza della milza (splhvn). Qui il Maestro, prefigurando un’identificazione spleen-residuo-maniera, offre importantissimi spunti di ricerca in direzione di un campo unificato di forze barocco-romantiche, il tutto in vista di una teoria di unificazione totale (gravitazionale-elettro-debole-barocco-romantica). Ci sto lavorando.

Ma torniamo a noi. Le dicevo che lo scienziato, in quanto corpo, ha in sé una certa maniera fisiologica, e ora aggiungo che essa è di norma modesta. È vero che occorre tener conto di un eventuale aggravio storico-geografico, relativo alle coordinate dell’evento nascita del particolare soggetto, ma è ancor vero che anche a questo livello nulla distingue un uomo di lettere da un uomo di scienza, le distribuzioni latitudo-longitudinali delle due specie essendo da supporsi a priori omogenee. Però…

– Però?

– Però, nel caso dello scienziato occorre a ciò aggiungere la carica acquisita; rammenta, signorina: le viscosità dei liquidi, le scabrosità dei solidi, loppe, frustuli, cacioli e gromme, l’attrito dei piani inclinati e la massa dei pendoli, le seste cifre decimali, gli zeri virgola, gli o piccoli e gli o grandi, i peli d’Achille, gli orecchi del lepre e tutti gli altri accidentali impedimenti, il davanzo delle sintesi e i residui delle analisi, l’escrescenze, l’eccedenze e i ritagli del mondo. Ricorda, signorina? Chi dimentica e costantemente cancella, chi rimuove, chi nemmeno sa: costoro, altrove li ho detti scienziati del tipo A (A come Anatrura), costoro se ne liberano, e non spetterà certo a tale mondezza di ammorbare le loro verità vere: tetragoni e satolli, perseverano sulle loro rette, al più soggetti al campo gravitazionale, come il sasso. Chi però ci ripensa, signorina, accantona ma non cancella, e con gli anni il mucchio cresce, cresce la maniera, e un bel giorno, il giorno tsegnato, si fa febbre. È allora che lei, signorina, e dico lei per dire tutti gli scienziati del tipo B (B come Braùra), ha cominciato a divagare, a digredere, a divergere, e sarà sempre peggio.

– Ma non c’è un rimedio, Padre? Una via di guarigione? Una speranza di salvazione?

– So a cosa sta pensando. Vorrebbe le dicessi, come dico ai parrocchiani in pericolo di peccato: reciti due Paternoster, due Avemarie… dica: Salve Regina… Atto di dolore… Vorrebbe le dicessi: reciti, signorina, due tabelline facili, due teoremi di Piotagora… dica: trigono trilatero… esagono equicruro… No! Non giova. E non gioverebbe nemmeno farli pronunziare da altri, ché quello in cui s’è cacciata non è un cerchio del Purgatorio, ma un groviglio infernale. La sua maniera s’è consolidata, signorina, e a nulla val più ricorrere alla numerabilità del numero, alla linearità dei lemmi: la matematica certezza, la consolatrice geometria al più saran rappezzo, ma non mai riparo al guasto di fondo. Già, perché lei è ormai in balìa del gramo campo, che forzatamente la forza lungo le sue infauste geodetiche: non più all’ingiù, come prima, come me, come tutti, ma all’incirca: d’attorno e d’aggroviglio, d’intorno, in dispersione: di digressione in digressione. Già, perché lei lo sente: sente che deve andare, ma non sa più bene dove: costantemente altrove, in ubiqua periferia distante, in tutti i sensi esorbita, vaneggia e si sparpaglia: fuor d’ogni regola, fuor d’ogni contegno, fuor d’ogni casella, fin nel margine dei moduli… Ma non lo fa apposta, signorina, lo so, ed è per questo che le faccio consegnare ogni giorno, nonostante tutto, la sua Tromba Parlante.

            Il giorno dopo però, in cambio di un modulo compilato con parsimonia, la signorina non ricevette la Tromba Parlante, oggetto della richiesta, ma un faldone di foggia recente, recante l’insegna dell’Archivio (polpo onesto in abito di duolo) e la scritta Il Ghiandolone Fegato: crestomazia minima di passi espunti da vari Autori e di poi ricomposti ad opera del P. Saverio Tricomi.


 

Il Ghiandolone Fegato

Crestomazia minima di passi espunti da vari Autori e di poi ricomposti

 ad opera del P. Saverio Tricomi

 e a sostegno della di lui Teoria Geodetica della Divagazione

 

                                                  

 

These were the four lines I moved in through my first, second, third, and fourth volumes. - In the fifth volume I have been very good, - the precise line I have described in it being this:


[...] If I mend at this rate, it is not impossible - by the good live of his grace of Benevento’s devils - but I may arrive hereafter at the eccellency of going on even thus;

 

             –––––––––––––––––––––––––––––––

 

which is a line drawn as straight as I could draw it [...].

This right line, - the path-way for Christians to walk in! say divines -

- The emblem of moral rectitude! says Cicero -

The best line! say cabbage planters - is the shortest line, says Archimedes, which can be drawn from one given point to another. [...]

Pray can you tell me, - that is, without anger, before I write my chapter upon straight lines - by what mistake - who told them so - or how it has come to pass, that your men of wit and genius have along confounded this line, with the line of GRAVITATION? 

L. Sterne, The Life and Opinions of Tristram Shandy.

 

Figura e funzione dello scienziato

Magro e alto della persona, il volto rasciutto e pallido, con un naso lievemente pronunziato e come affilato dal calcolo differenziale [A]; campione del regolo, mente quadrata, positiva, inzuppata di entropìa [A], ma insieme una secchezza di testa, qualcosa che fa pensare alla matematica, alla paranoia, ad un dubbio ascetismo [RSP] la cui sintassi logica è retta in pratica dal numero [DF]: una opacità imperscrutabile e, si sarebbe detto, una ottusità generale del sensorio facevano la nota di quiescenza in quella fisionomia senza rilievo [CD]. La meccanica lo aveva così preso e tenuto, evitandogli in complesso tutti i rovi e le spine di cui è piantato il calvario tetro di certe catastrofiche adolescenze [M]: come un ingegnere poco incline all’oratoria che manovri perfettamente i suoi abachi e tuttavia non disponga “di parole abbastanza appropriate” [PB] ascoltava, per poi buttar là, lui, come niente, quelle tre o quattro parolette secche da uomo di scienza, che sa il fatto suo, ed enuncia in termini implacabili il dato [CD].

            Portatore glorioso di una supposta élite matematico-geomantica, o geofisica, come chi dicesse una casta sacerdotale-astrologica egizia o caldaica, una comunità chiusa orfico-pitagorica detentrice di copernicano contrabbando [CD], le sue bambinesche certezze lo immunizzano dal mortifero pericolo d’ogni incertezza: da ogni conato d’evasione, da ogni tentazione d’apertura di rapporti con la tenebra [VM]: con la sua intelligenza.... con tutta la meccanica che ha in testa [CD] detesta il tempo, e lo considera un segno della fondamentale inesattezza dell’universo. Rifiuta vento o pioggia [C], chiama lisce le amiche che non propongono problemi affettivi, sessuali, intellettuali [C].

            Quello che sospetto è che gli prema di ridurre sotto controllo [RSP] il ‘tutto’ – librificare l’universo [RSP] – con criterio fisso di separazione catechistica [Id]: lo sbarazzerà da un mondo troppo complicato e mutevole, per ridargliene invece un altro dove i parametri sono pochi e facilmente controllabili [VS]: impresa impossibile, frustrante, disperante [RSP], un progetto che oserei definire celeste di geometria letale [TE]. Forse è un ragionamento disonesto: in tutto ciò sospetto una sdrammatizzazione cosmica – l’Eternità volgarizzata – che mi ripugna [EI]. Ordine Ottimale: Il dominio esercitato sull’universo ridotto e fermo del Bozzolo porta con sé il concetto di semplificazione. L’esclusione dal Bozzolo di molti parametri permette di non essere travolti dalla massa e la complicazione delle cose e dei fatti [VS] ... oh paese d’Utopia dove ogni cosa è collegata onestamente alle altre! Dove le parentele nascono da logiche induzioni! Utopia – toupie: quando il processo storico si arresta il movimento diventa rotatorio, girano i cicli, le sacre ruote [VS]! Luogo che è sacro a Minerva Chilìfera, cioè alla pace armoniosa del Pensiero e della Geometria Superiore [A], la musa apodittica e rettangolare [MI], quel bisogno di ordine che ha reso così poco felice la mia vita [MI]! Per qualche tempo sperimentai una dura felicità; annotavo, schedavo, sistemavo, certo ormai che in quella fulminea e ordinata cattura di sensi fosse la chiave della totale intellegibilità dell’universo [NC]: il metodo dell’indagine è squisitamente matematico e l’indagine perviene a risultati di alto interesse, non soltanto normativo, ma anche speculativo [A]: nel fondo di ogni poesia del costume e del tempo c’è, forse, una buggerata meccanica [An], vien meno un asserpolìo di passioni, diviene forse nient’altro che un sistema di espressioni algebriche [A]: i limiti del sistema sono determinabili in base al grado di approssimazione dell’analisi che ci interessa di istituire, così come negli usi pratici del calcolo ci si ferma al secondo o terzo termine di una serie convergente, contenti di questa approssimazione [MM]. Che scarnificazione, che inumanità, che astrattezza arida [Id]! Un vero ingegnere finisce per appropropriarseli come cànoni mentali, quasi bloccandovi le sue medulle, in una ratioo in un istinto acquisito [A]superfluo l’errore; e giudiziosa l’abiezione che segue la legge normale dei gravi [Id].

 

Limiti della funzione di scienziato

Là, scientificamente, mi pareva di accertare che quelli (fatti miopi, ipermetropi, guerci, strabici e loschi dalla matta e protratta diligenza degli studi [NC]) così facoltosi d’informazioni e di conseguenze dimostrate [Id], in attributi rigorosi, intendessero organizzare la mia meraviglia, e farne una funzione [Id] geometrizzata a magia [PB]: quei laboriosi ordinatori, posseduti da uno spirito serio che voleva piuttosto escludere che distinguere – a fine poi di unificare [Id]. Ma oltre non vanno: oltre il calcolo maldestro delle incaute, recidive approssimazioni [Id]: venendo a ritrovarsi, com’è inevitabile, nelle avidissime minuziosità della vita, prendono a considerare solo in sede separata, isolandole arbitrariamente (per comodità di studio, per fare un po’ d’ordine nell’intelletto: in verità, svuotandole di significato ininterrompibile e corresponsabile) certe avidità meticolosamente fondamentali e di moltissima conseguenza noetica e poetica, cioè attivamente spirituale [Id]. Troppo poveramente si schematizza, troppo arbitrariamente si astrae dal mostruoso groviglio della totalità: e ragionando così sulle parti (cioè su regioni logiche) si addiviene a conclusioni logicamente regionalistiche [MM], attraverso arbitrarie semplificazioni si addiviene all’idea di sistema ordinato eliminando molti dati della realtà contemporanea, che il giudizio di ricorso alla corte suprema della realtà totale respinge ordinandone la cassazione [VS].

            Ma ora appunto [NC], il trascurare qualunque fatto della vita o del mondo è menomazione [MM]: un impoverimento della realtà – giusto per amore di esattezza; uno schematismo di falsificazioni giusto quando più vorresti tendere alla conoscenza [Id]. Ma l’insopprimibile coefficiente di efferatezza – implicito nella realtà, senza eccezioni – è sempre inesorabilmente sottinteso nel procedimento scientifico [DF]: dopo tante ellissi paraboloidi, dopo tante iperboli descritte [Id], fuoriescono torri sghembe e rubiconde [NC]: ai confini del nostro senile campo visivo, si affacciano immagini inedite, emergono sanguigne sinopie di minatorie icone, retrospettivamente infirmando il nostro diligente lavoro [NC]. 

            C’erano, è vero, stati attimi nei quali, lucidamente, gli era sembrato di immaginare tutto l’ordine che sarebbe riuscito a fare, e allora aveva sentito dentro di sé una pazza chiarezza, una potenza d’intelletto estrema, mostruosa, che forse fortunatamente per lui durava proprio soltanto degli attimi, e si disperdeva ai primi ostacoli [VS]: avendo egli esteso la sua analisi a un troppo breve intervallo della funzione, non la conobbe e sbagliò l’integrale [RIN], infatti egli otteneva risultati abbastanza corretti in casi di manovra con pochi elementi, e meglio se necessità esterne riducevano ancora le possibilità di permutazione [VS], ma non possiede i mezzi per misurare la realtà, [PLP] e quindi non ne coglie le pieghe più oscure e i tratti più scabrosi [It].

            C’è in effetti un eccesso che rimane in difetto rispetto alla capacità del piano inclinato in cui è per dileguare, e perciò si riporta altrove [DF]: ogni più nobile schema nella imperfettibilità del mondo si avvera e perfeziona cariandosi, cioè accompagnandosi di qualche inevitabile imperfezione, così come il corpo, andando, si accompagna del peso (gravame) [A], e vano è parlare ancora di una redenzione assoluta grazie a cui il guasto intrinseco verrebbe meno radicalmente per sempre [DF]. Se si fossero accorti che [Id], dacché la potente sintesi aveva rifiutato l’ingombro dei dettagli [AG], il loro Taglio Netto è estromissione di molto altro; se si fossero accorti che il loro distinguere non è che un dividere le proposte reali in tabelle incluse ed escluse allora avrebbero anche saputo che il delirio della conoscenza levata a pleroforia è l’unica forza per cui mai nulla resta vile e trascurabile [Id].

            Io credo che un residuo di goffaggine, o di miseria, o di sporcizia, in una grande vita, debba esser notato; poiché quello che vale è la totalità ricca, non l’arbitraria, la decorosa, la decoramentale astrazione [SD], un qualcosa che sia come quintessenziato e sterilizzato fuori dal grasso contesto spirituale-carnale della vita [Id]. E allora, ogni qualvolta esamineremo manifestazioni della realtà mondo e non astrazioni o finzioni del pensiero (che per ispeditezza d’analisi pone a sua posta ed astrae e delimita, quasi istituisse ad arbitrio le regole d’un gioco) [MM], le macchine reali ci appaiono sotto una forma ben diversa da quella che la fantasia finalistica ci aveva indotto ad auspicare: esse son sature di espedienti e grossi gnocchi dovunque, voluti dal bruto indugio della realtà [MM]. La realtà così complessa, così complice di sottintesi e alata di desideri estremi [Id], la quale diguazza un po’ sempre anche esteticamente in un suo brodo sudicio di staffilococchi [Id].

            È il bagaglio del mondo, del fenomènico mondo. L’evolversi di una consecuzione che si sdipana ricca [CD], così tutto si somma e s’imbroglia: e l’intrico inganna e irretisce ogni analista. [VM]: il mondo è fatto di spaghi tronchi, non collegati, se ne tiri uno, vien fuori un pezzo di corda, ma il gomitolo non si disfa [ET]: per questo il viluppo, con gli anni, diviene, per i più, inestricabile, inintelligibile [Id], da restar aggrovigliatamente perplessi d’innanzi a tante e tante spire di tortuosità [It]. Non esiste, purtroppo, una nomenclatura sufficientemente analitica per il catalogo di siffatte irregolarità [AG], per dire quel portentoso e serpentesco groviglio di cui non se ne capisce niente, e solo certi presuntuosi novellieri di genere psicologistico si danno delle grand’arie per i loro poveri schemi e le stiracchiature più o meno dostoieschiane. [RD] Credi a ciò che dichiaro: non conta l’ordine dei fatti, mesta cronologia, conta la mestica e l’amalgama, l’unione nel seno del Poema che prescinde dai secoli, dai luoghi, che fonda la figura e il miraggio costante [MF], perché la dialettica e il tempo si abbreviano e aggrovigliano, sono siccità e farfuglio, arido computo delle lunghe e delle brevi del delirio [RV]: elementi interessati; che io non concepisco se non quali grovigli o nuclei o gomitoli di rapporti privi di un contorno polito [MM].

            Da questo punto d’osservazione, l’impressione è appunto che il gomitolo degli itinerari sia stato svolto con tanta deliberata perizia, da chiudersi in una sequenza di nodi, viluppi, cappi [TE]: quello che so è che esiste un filamento di parole, una ragna, un deposito [PLP], che si lascia chiamare qua e là da mille varianti imprecise, ori, drappi, fiori, cianfrusaglie [CD], e lo si porta dentro di sé per tutto il fulgurato scoscendere di una vita, più greve ogni giorno, immedicato [CD] disordine delle viscere universali, e mucillagine erratica [H]: la memoria delle cose che non si arricchisce più, ma si accumula infinitamente di altre devianti memorie [N]. Enfia ernia di volute ad onda squassatamente sopra se medesime [It], la materia frammentata si sviluppa e prolifica, sì, ma non già in lunghezza, aggiungendo dato a dato, in periglioso, anzi rovinoso bilico, ma irradiandosi; in codesto processo continuamente disfacendosi, dilatandosi come macchia, muffa, muschio, fradicia fungaia [NC], sfrenato raccapriccio, che lievita atrocemente enfiandosi senza limiti [It]: il disordine è malato e splendidamente letale [II].

 

Percezione e rifiuto del limite: emergenza dello scarto

Può darsi che la manìa dell’ordine astringa taluni a potare la pianta di tutte le rame capricciose [VM]: dividere, disgiungere, discriminare, separare il possibile dall’impossibile, il reale dall’inesistente, la buona prosa com’è per esempio la nostra dalla vacua retorica, il logicamente connesso e consequenziato dall’uterinamente avventato [RD]. L’incapacità di dominio sul mondo esterno porta il soggetto a trasformarsi: egli stesso [VS] mette in piega i limiti torcendoli in un orizzonte dove tutto quanto illimitatamente si spiga perché le sinistre incognite variabili pareggiano e i valori interscambiabili si sganciano in sedate equazioni [It] per contenerlo e dominarlo, per comprenderlo insomma [VS]. Così l’agricoltore, il giardiniere sagace mòndano la bella pianta dalle sue foglie intristite, o ne spiccano acerbamente il frutto, quello che sia venuto mencio o vizzo al dispregio della circostante natura [CD].

            Dichiaro, per altro, di non appartenere a nessuna confraternita potativa [VM], ed anzi colgo l’occasione per precisare che praticamente mai, quando alcunché viene da me considerato trascurabile, io sono nel giusto, anzi è verosimile che si tratti per l’appunto di qualcosa di estremo momento [N]. Dunque, io non posso trovare tregua o lacuna nel mondo dei numeri, che ignorano complicità o distrazione; non già perché siano vigilanti, ma perché sono infinitamente coerenti [TE]. Avrei voluto alterare quello strozzato impoverimento di rapporti reali, e avrei voluto precipitarmi in una dovizia di realtà sia pur rovinosa e inestricabile [Id]: decisi di cessare di esercitare la mia regalità tra i triangoli e i cubi mentali [ADU], e quando fui nudo di ogni difesa, i significati mi aggredirono. Non bastò loro che li riconoscessi, ordinandoli nei miei cataloghi totali [NC]:. Fu allora che cercai dei paragoni, delle similitudini, e mi accadde di inventare il remeggio spietato dell’aquila, l’odore del leone, la viscida distanza del serpe [ADU] e godevo di nuovissimi e profondissimi incanti di bellezza (non concessi nel classificarsi della natura),  [Id] così che nulla e nessuno in realtà, ormai mai più mi si dava a conoscere come trascurabile [Id], una proposizione incidente tal’e quale che si possa toglier via senz’altro, senza pregiudicare affatto il senso totale del discorso [Id].

            Chi si era scelto, invece, pesi e misure, non faceva che pesare e misurare a una stregua l’ovvietà gretta e la meraviglia a perdita di moduli e tacche [Id]: operando alcuni de’ molti indagatori dell’analisi del dato, che è infondo l’unica cosa analizzabile, ché al di fuori non è attualmente se non il buio della notte [MM], il mondo reale operava potentemente sui loro spiriti onesti sicché la loro volontà [RIN] standardizzata ed amputatrice [Id], che di tutti gli incesti più mostruosi farà subito però castissima geometria [It], sintetizzava con certezza soltanto il possibile. Essi erano inetti ai sogni fallaci [RIN]: “A che serve accumulare finzioni, velami, enimmi, trucchi, maschere, favole, figure, camuffamenti, geroglifici, orpelli e imposture? Perché aggiungete l’Allegoria del Discorso al Simbolo del Viaggio? Perché una tale decrepitezza di mezzi per una nuova avventura? Non mordevano le cimici e non cadevano le lune? Di che altro avete bisogno? Non vi soddisfano i fatti [CV], i quali dispongono, a vedere e a governare ogni cosa, e a discettarne, della cecità de’ tiranni e della vescica degli dei [VM]? E tutto l’altro, il rimanente, l’eccetera come se non fossero: anzi, siano senz’altro passati sotto silenzio, nemmeno elencati [Id]!

            Ma irrefrenabili bizze, ricorrenti manìe, stravaganze d’ogni disegno e maniera son solite accompagnare e seguire come saltabeccanti scugnizzi o prospere vivandiere la poderosa legione delle idee [SD], ben piegate, nel cassettone monumentale del cervello [CU]: lo Spirito è infinitamente più saggio ed esteso che non l’ingegnere progettista [MM], così poco incline agli intrallazzi [It], e quella esibizione che dice nel suo discorso di avere e dare ragione di tutto; quel dramma soppressivo e totalmente assuntivo; quella rivelazione risolutiva, lasciano invece pur sempre, fuori di sè, come un vago “eccetera” [Id]. Lo scienziato, il tecnico stesso [C] – rigorosamente esatto nel calcolo dei suoi propositi e nel verificarsi delle sue approssimazioni [ST] – soffre spesso [C]: avverte sì anche lui – è vero – nella natura una resistenza scandalosa – il casuale cioè, l’accidentale, l’arbitrario, l’efferato, il mostruoso, lo sconveniente malappropriato, l’osceno, il delirio non “riuscito” ovvero il [Id] reliquiato, frusaglia più o meno inutile, alle sponde del tempo consunto [VM].

            Il problema dell’ingegnere è la costruzione dell’alba [C], sono le rocce nere: quelle che con la loro minuziosità fanno piangere e fanno ridere il mare [Id], le deformità: quelle di cui giorni e tempi hanno attoscato e contorto uno stelo ignoto ed inutile contro il cielo di dolore, l’esile fustolo che già si adacquava per Battesimo. La bozza macaronica, dunque, la tumescenza barocca. La gromma fescennina. [VM]. 

            I detrattori dell’Errore son anche i propagandisti della Paralisi, con cui credono di aver portato tutto a compimento definitivo, e di aver soppresso sensatamente l’atrocità degli iati. [Id] Ma bruceranno gli inani e colti congiurati che progettano la definitiva geometria del mondo [I]: uomini logici e formulatori che si vantano di curare l’edizione storica della vita, con tutto l’apparato critico a piè di pagina – però tacendo tra le righe il sottinteso atroce, vergognoso, e malaugurato. [Id] E nondimeno sarà proprio un siffatto di più che vigorosamente fungerà da precipitante, attraverso tutta la garanzia proffertasi di là dalle sottrazioni [It]; questa decomposizione umorale in cui il marcio con vivace ardire si rivelerà quanto mai intraprendente, un fattore attivante che stimola ed incita e riesce e fuoriesce [DF] elevando alla potenza massima, frazioni di realtà, che avresti detto, invece, quantità trascurabilissime: cicerchie [CP], apprestandosi a scaricare il fascino che da lunga pezza ormai si era andato a mano a mano accumulando – (come l’elettrico nelle macchine a strofinìo) [CD]: un’ ira esplosa e per dir così rampollata dalla fonte stessa del raziocinio [CD] che scuote e strappa dagli assiomi [ST].

            Gli uomini spesso inseguono l’infinito – ma in un verso solo [Id]: lo spazio è enorme, anch’esso feroce [ADU] e trae ad una perciò anzi vigore di sviluppo attraverso i campi minati delle equazioni [It], ma si appiglia a particolari bizzarri [CV], il che comporta una serie di impreviste complicazioni che inibiscono lo spostamento a destra della reazione in corso [VS], che non riesce a smaltirsi. E che, anzi, quanto più si raggriccia tanto più si sbrodola scompostamente. [It] Non viene pertanto raggiunto un equilibrio stabile [VS] con tutte le scorte e i rifiuti mai più riprovevoli [ST], e l’errore, il non previsto, si insinua in quegli altri superni ingranaggi [H].

            Il refuso, l’errore fa parte in modo perenne della rappresentazione [P], l’errore è inevitabile, l’errore è doveroso, l’errore è dignitoso, l’errore è sciamannato ma imperativo [P]: e non potremmo pensare che alla fine solo l’errore funziona, e che tutto il resto – voi mi capite – semplicemente non c’entra? [P] Ciò che sembra il guasto, la corruzione, è invece [It] la realtà, viva e conseguibile solo per metafore approssimative – ed in cui pertanto è necessario l’errore [Id]. C’è, di fatti, nell’errore un che di fastoso, che non pare compatibile con i superbi ritrovati della fantasia geometrica [N]: come compenso alla fatica matematica delle quotidiane invenzioni ho allargato i confini cromatici del mio mondo, e ho finto che in esso entrasse un errore, rovinoso e abbagliante: avendo colto la mia predilezione per i particolari irrilevanti [NC], il cerume di tutti gli omissis [It], la mia fantasia casta ha osato abbozzare amplessi adulteri [ADU] e sfugge il controllo [It]. Tendo a una brutale deformazione dei temi che il destino s’è creduto di proponermi come formate cose ed obbietti [CU] (ho le dimensioni di quegli animali tutti entragne che, uccisi e sventrati, dànno alla luce un interminabile itinerario di visceri rosati [TE]) di più: il mio itinerario non venne mai meno al pensiero delle pressioni, di appassionante certezza o di dubbio voraginoso, che il sottinteso necessariamente e persistentemente esercita sulla nostra struttura intera [Id].

            Non vi è legge se non nelle viscere torturate [RIN]: chiedo, il mio corpo chiede la sproporzione, il terrore, lo sbaglio [EI]. Non diversamente, l’uomo porta attorno questo inutile e prestigioso stendardo, manto e sudario che non coincide col corpo, guaina inesatta e fastosa [LCM] senza più vergognarsi di niente, soprattutto di quelle trasparenti interiora che ormai costituiscono il diafano apparato e l’addobbo evidente del suo animo [DF], come il mandrillo non può mortificare la retorica delle sue chiappe policrome [LCM], a testimoniare la natura come emergenza multipla del sottinteso [Id]. Per noi, questa desolazione adesiva, quest’apparente manifestazione carbonchiosa, questa pustolarità craterica, questa rividità invischiante, è un soprappiù, una acquisizione in movimento continuo. E’ uno squallore, che ha precipitazione (e per questo chiediamo, sì, un indugio). Ed è uno squallore, che ha un accrescimento tutto crostosità e inviluppi (e talvolta per questo chiediamo ansiosamente, sì, una semplificazione disadorna). Ma superate le prime perplessità riconosciamo, dobbiamo ammetterlo, che tutto questo squallore presunto, è, all’opposto, un rinforzo di realtà[CP].

            E’ alquanto inesatto chiamarlo Inconscio quel fondime cascaticcio della Mneme che va sobillandosi sempre in cerca di coagularsi. Perché ognuno, sia pure oscuramente, è, dopo tutto, ben consapevole di quel ricettacolo; [It] via, diciamolo pure: il subalterno pozzo nero per bloccarvi a vita la raccolta di rifiuti biologici i cui serpigni miasmi sbucheranno poi in realtà, e sia pur attraverso gli incubi zelanti e la stressante nevrosi, per farsi punitivamente vendicativi. E’ certo, quella tale posatura decantantesi. E non solo nella sua avvincente ritentività ma anche nelle sue emanazioni propalative. Queste, infatti, si spingono fuori, ed accorrono, nella sovreccitata veglia e nell’affanno del sonno, senza chiedere affatto alcun permesso [It]: gli addii alle comete diurne [CV], malanni ormai rugginosi nel tempo [It], figure che la centrifuga forza del barocco scioglie dalle volte e saetta e induce a sforare cupole attortigliate [CV], qualcosa che debbo aver raccattato leggendo le storie, certe fole, le memorie di qualche giullare [ET]: son essi che rivengon fuora sulle tele, quasi per un impeto insopprimibile [AS]: i capimastri, quando le loro madri se li portavano ancora, alle dette madri gli si fecero vedere dei cammelli[1], dei canguri[2] e delle giraffe[3]. Venuti dopo alcuni mesi alla vita e dopo alcuni anni alla capimastrìa, e preso il diploma, essi levarono moltissime case, le quali case si riscontra che tengono alcunché della giraffa e alcunché del cammello: e un poco anche del dromedario[4]. [MI] Ma io, semplice e ignoto gelataio, mi unisco al Coro dei Saggi e dico: “Badate oh gente, perché non avete calcolato i pinguini” [MF].

 

Scarto e divagazione

Osserverà il cauto lettore come correre e percorrere e trascorrere senza meta avere, ignorando di aver principiato, sotto la ferula di una femminetta artificiata inclusa nelle viscere, osserverà dunque il lettore saputo e addestrato dai malanni mille e millanta della vita che codesta velocità e prestezza delle membra, parte propria parte mossa da ubbidienza ed estranea presenza, osserverà il lettore paziente e aduggiato, intristito ad una lunga militanza nella felicità quotidiana dell’esistere, osserverà dunque come tutto ciò sia frustrante e poco savio, non dirò quasi quasi dissennato ed ancora sarà da ammirare quel procedere perché tortuoso [I]. Questo itinerario, sulle piante e mappe, non giace supinato ma si dibatte [It], non succede ulteriormente a senso unico soltanto, ma si rivolge contemporaneamente in tutte le direzioni [ST] e sconvolge la geometricità di ogni tracciato [It]. Taluno vi precipita per linea retta; meglio, anche, ché là dove intende e perviene non ha luogo la curvatura spaziale; ma la retta è retta [H], il resto è congettura [CV] e le persone colte si rifiutano di prestar fede a simili barocche fandonie [CD].

            Altri spiraleggia calando secondo un grafico articolato da vipistrello a hirundo [H]. E da ritto, che colà era, prosegue poi a farvisi quindi scalenìa sghemba: all’inseguimento di ben altra ardua rettitudine, che, nella prossimalità squagliandosela, con riuscita continua, non considera affatto vituperio d’insania l’apostasia, la defezione [It], l’obbligatoria tortuosità della vicenda di pertinenza nostra. [It] 

            Il suo non è decadimento scostantesi dialogicamente, che asserisce più oltre e di soppiatto: è piuttosto l’obliquità digressiva che, in disparte, battito battito, batte in velocità, ed antecederà sempre, perciò, anzi d’un buon tratto almeno, la meta in apparenza più corta del filo a piombo [It]: egli barcolla lungo una strada rettilinea, e lungo una strada sghemba si finge sobrio e di retta camminata. [AP] Altri fluttua; irregolare, erratico, non alieno dalle colpevoli delizie dell’approssimazione; imprevedibile a se medesimo l’estro che lo spinge a dipartirsi da questa e da ogni altra linea [H]. 

            E’ vincolo, sì, dunque, eccòme, rafforzativo anzi ma peculiarissimo: obbliga infatti avversativamente alla sfrenatezza [It] i matemi e le quadrature di Keplero che perseguono nella vacuità degli spazî senza senso l’ellisse del nostro disperato dolore. [CD] Dunque, a caso, inizierò un percorso. A caso? Non è esatto; mi accorgo che di istinto ho scelto il sentiero che sembra più imperfetto [TE], qualcosa che ha avviato verso la catastrofe, mentre la strada era così ragionevolmente lineare. Perché abbiamo scelto, per quale frode dei sensi o imbroglio delle informazioni ci siamo immersi, infangati [ADU], ma solo per decorare il percorso, talora per abbreviarlo, ma non per condurre direttamente al risultato [N], e, per di più, transitabili dappertutto, e dovunque transitati e fugati, e trafugati: insieme con il rimanente d’accompagno [It] (ove si esplicavano la di lui tecnica ciondolona e distratta, bighellante, smicciante a caso, ammusante a ghiribizzo, a capriccio [P]) in un frenetico giroscopio di incurvature per forza [It].

            Senza esitazione procedere, stranamente voltare, scostarsi dalla retta, continuamente [PD], così che a noi può accadere di discorrere di e con alcunché che è già altrove, surrogato da cosa incongrua affatto al nostro discorso – come se, al momento di salire su un rapido per Venezia, i nostri lenti, stupefatti riflessi, la disinformazione e il disservizio ferroviari, ci portassero ad abbordare un modesto, anche se intensamente poetico, accelerato paesano, destinato a smarrirsi nelle nebbie padane [NC]: un procedere per disorientamenti e dunque in una condizione di impossibilità a pervenire [RV]: in qualunque direzione io mi muova, apparentemente ragionevole, per raggiungere una qualche meta, io so per certo che non solo la meta continuerà a scomparire, ma che altre e a mio avviso improprie mete mi si proporranno; purché io non le scelga [N]: nessun impedimento in realtà esiste, ma accade che si persegua il punto A dirigendosi verso il punto C [TE]: bisogna saper tenere conto della cadescenza reale nei propri procedimenti [It], occorre che la Ragione, così arcigna di equazioni [It], rintracci nuove strade, proibite e stravaganti [LCM]: si prevedeva di operare, ad un certo momento, sul punto A, Ed invece [It] alle sue spalle lo spazio si deforma, così da frustrare qualsiasi speranza di raggiungerlo [C]: si è poi fatto scalo al punto Y. [It]

 

Divagazione e letteratura

Man mano aggravandosi, e legando le sue varie manifestazioni, questo disturbo assunse dimensioni lessicali, sintattiche, stilistiche; mi accadeva, mi accade di cader preda di vere epilessie retoriche [NC]: la guasta pronuncia vanifica le formule [LCM], l’ebbrezza mi costringe ad affastellare aggettivi [NC], aggavignare quindi il testo ostinato e casto, stuprarlo di lebbra e lue, acclimatare una aurorale, fatale febbricola [NC], scarcerandola di volta in volta nell’enormità discorsiva di un segno [Id]: a fatica mi districo tra parole desuete, risibili lirismi [NC], serie di atti verbalmente sediziosi [ST]. Signore, non v’è purismo, non v’è sillogismo che valga [NC]: la febbre si insinua nelle povere vene delle cose che si ostinano ad esistere [I], in una ossìtona spiralizzazione meabilmente più e più penetrativa fino ad un ritrapianto diramato al massimo della sua ragnazione possibile [It]: ma non potrebbe la febbre essere solo carattere linguistico [RV]? Bollicolante terminologia che si fa lena per svaporare in lessico: una febbre gagliarda [It], come se il linguaggio fosse cosa mostruosa ed esso stesso fosse dolore ed errore [RV]?

            Il discorso non esisterebbe se non esistesse la tua malattia [RV]. In termini letterari, la storia è sempre “storia di una disubbidienza”; presuppone un errore, una diserzione dalla norma, una condizione patologica. Quanto più si estende, sottraendosi alla saggezza del vocabolario, tanto più il linguaggio assume come proprie le dimensioni della malattia [PLP]: non può certo sfuggirgli, a lui, – snaturato che non è altro, – l’enormità discorsiva che realmente si annuncia [Id], il pandemonio che ne dirompe fuori [CD], e trovando narcisistico esprimere ad alta voce una opinione sia pure sfavorevole di se medesimo, preferisce affabularsi in un totale e altamente retorico silenzio, pieno di subordinate, intimamente esclamativo, fitto di clandestine iperboli e segrete ipotiposi, un nulla fiorito di chiasmi [N]. E allora benché talvolta sembri deviare nella convulsione senza tatto e nell’indarno del delirio febbrile [It] l’eccetera oltre di sé si fa oltranza liberatrice [It], riannettendo stratta stratta, il lasciatoandare e l’omesso [It], rimanente tuttavia, che è mondo: per andar sempre dicendo [Id].

            E qui si raccoglie e salda la provocazione fantastica della letteratura, la sua eroica, mitologica malafede. Con le sue proposizioni “prive di senso”, le affermazioni “non verificabili”, inventa universi, finge inesauribili cerimonie [LCM], scarica a fulmini gli étimi del suo Discorso a Meraviglia in cui ci si stravolge per forza, e ci si oblitera [It]: un andar-dicendo mondano la cui monotonia sottintesa è per farsi sempre insurrettivamente eccentrica [It] e appunto perciò non sta mai ferma un istante ma anzi d’istante in istante vibrando smania e si emette lì per lì. Sull’istante stesso della percussione energica: per cui scatta a spire, serpeggiando d’ogni lato e d’ogni modo. Si avviluppa e sviluppa, si torce in sinuosità finché esplode addirittura per vertere in vortici di elici, sempre evitando di comprimersi e schiacciarsi contusionalmente [It]: non esistono il troppo né il vano, per una lingua [VM] e il testo maneggiato come labirinto di tutti i possibili itinerari, è assolutamente senza limiti [PLP], non s’interrompe mai nel suo andar-dicendo e che mai non tollera grettezza di conclusioni [Id]: un Discorso disruptivo che si slancia a decorrere e a smisurare quindi i solchi della propria insultante ed esultante sintassi: tracciatasi segno a segno su quel bolo fonatorio, spinto in tutte le direzioni da una parlantina, delirante ormai. Sì: è dappertutto. E staffilatamente va distaccandosi con strazio dilacerante dalle proprie torsioni in cui si era trattenuta. E si torce difatti e si tortura vibrando [It] di quella foruncolosi immensa, ch’è la realtà cadescente [It].

            Ma il mestiere del raccontare è difficile; tenere in sesto le idee, che si sbandano come un branco di pecore! [RIN] Difficile, sì, certo, eccome: perché radicalmente intricato dall’origine fin su su agli interminabili gettiti [ST]: non c’è che dire. Il discorso si è fatto difficile: quasi incomprensibile. Sovversivamente addirittura eccede dal suono che pronunzia. E non gli basta di toccare sui timpani il corpo percettivo degli altri: si ficca e s’immischia in un’esperienza totale in cui vengono spartiti e restrizioni e limiti. Per arrivare dove: si può sapere? Ma, in nessun luogo: [CP] la realtà, che va vacillando scrollo scrollo, crolla di scadenza in scadenza, si infartua nei fatti datisi irrimediabilmente [It]; e in prima e grossa approssimazione, ho chiamato dato il complesso delle nostre nozioni [MM], e così il racconto, da cui ci si salva con la Divagazione. In essa il narrare si ramifica bensì a rete, ma per insabbiare quasi tutti i suoi tronconi, come accade per le sensazioni che scorrono sul corpo del Pesce Rombo [VS]: la loro rimediabilità è digressione continua dalla realtà medesima [It].

            Come lei vede mi piace divagare. Chiacchiero. Ma perché negare che mi diverto a interporre, tra me e le parole che mi son proposto di dire, altre, infinite parole, un dedalo, un labirinto, un intrico di parole [ET]. Dirò dunque, per divagazioni, quello che mi piacerà dire [SD], ma il racconto che ne verrà fuori sarà discontinuo, lacunoso, una sorta di ciarla, di cicalata, un vagabondare, un andare a spasso tra una digressione e una invenzione dell’umore. Un viaggio ha un inizio tecnico, così come un libro ha una pagina “uno”, ma finisce sempre un po’ a caso, e lo si può anche lasciare alla penultima tappa; e soprattutto non avrà un filo, non avrà struttura, sarà un gomitolo policromo, una trottola, un gioco di parole [LI] la cui cosmetica, di volta in volta, della volta fa svolta [It], la mulattiera accidentata dell’errabondo discorso che, in tutti i casi sorteggiati a precipizio, va scoscendendosi [It] per la sua insufficienza a dichiararsi in espressione esatta, per cui, quando pare che sia per rendere alle parole la virtù poetica di farsi tragitto, si cancella in se stessa senza mai pronunziarsi interamente in altro [Id].

            Ma era previsto, si erano fatti piani su piani, e allestito il finale, questo finale insomma, che però s’imbroglia, lo vedo bene, s’imbroglia [VS], e il discorso, allora, si leva di per sè – enorme, procurativo, trasformativo – e ti toglie dalla norma [Id]: da Norma rigorosa si rende esultante Enormità d’incremento [It], e rinunci ad essere collezione di dati precisi, di funzioni a vicenda interessanti [Id]: come potrai ora non essere lo sterminato itinerario dell’insensatezza? [RV] Tutto il resto, l’oltre, l’altro, l’eccetera [Id], la vita stessa nella sua sfrenatezza inevitabile [Id]? E sarà il morto mondo un precipitare, senza conclusione o clinamen, di tutti gli sciolti e dissennati possibili linguistici [NC], e così anche il più spedito di tutti noialtri – passivati portatori parziali della cumulante inerenza, – non sarà altro mai che un attardato: latore di incompiutezza [It]: verbalmente uno snaturato [Id], un idiota esaltato col cervello interamente manomesso da fisime letterarie [RIN], un luogo retorico, una sezione temporale generatrice di parole [Id], un groppo, o gomitolo o groviglio o garbuglio [VM] o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo [PB], che fa cento metri in tutte le direzioni, ma la fine non la vede mai, anzi ha in orrore vedere la conclusione di qualsiasi opera [AP] ma a questo modo, per quel che egli suppone mappa labirintica del mondo, divagando, annotando sigle e insegne sul suo corpo ricettivo, rotolandosi come dado e poi abbandonandosi al vuoto, tentando di cogliere nell’attimo glorioso e filologico che precede lo sfracellamento, il numero augurale, procede, sistematico e paraforico, verso [NC] non già il termine del pellegrinaggio giacché per naturale definizione il pellegrinaggio non ha termine, ma il percorso, lo spazio da attraversare per essere sì rettili, ma rettili peregrinanti [PD], vagabondi a meraviglia [Id], ed erompere nel delirio onnivago e numeroso (snaturato e impersonale) della ragione [Id], quasi senza rendersene conto [VS] come una spazzatura irrancidita [CD] dura, incollata, che nessuno legge [CD]. E che questo testo abbia senso è puro spreco, fatuo esibizionismo. [RSP]

 

Bibliografia

 

Edoardo Cacciatore:

IdL’identificazione intera

STLo specchio e la trottola

DFDal dire al fare

CPCarichi pendenti

ItItto Itto

Carlo Emilio Gadda:

LMFLa Madonna dei filosofi

CUIl castello di Udine

AL’Adalgisa

CDLa Cognizione del Dolore

PBQuer pasticciaccio brutto de via Merulana

MLa meccanica

AGAccoppiamenti giudiziosi

RDRacconti dispersi

RIRacconti incompiuti

MILe meraviglie d’Italia

AGli anni

VMI viaggi e la morte

SDScritti dispersi

SVScritti vari

PDTPagine di divulgazione tecnica

RINRacconto italiano di ignoto del novecento

MMMeditazione milanese

ASAltri scritti.

Giorgio Manganelli

PLPPinocchio: un libro parallelo

LMLa letteratura come menzogna

LILaboriose inezie

TETutti gli errori

RVRumori o voci

HHilarotragoedia

APAntologia privata

ADUAgli dei ulteriori

ETEncomio del tiranno

PDLa palude definitiva

PIl presepio

EIEsperimento con l’India

NCNuovo commento

RSPIl rumore sottile della prosa

CCenturia

NLa notte

IIInterviste impossibili

IDall’inferno

Cesare Mazzonis

VSLa vocazione del superstite

CVIl circolo della vela

MFLa memoria fastosa

 

a: altro

 



[1] Poco oltre, sulla sinistra, un cammello di impudico verdemare [NC] – io vidi, signore, librarsi a mezzo cielo il grande cammello viola [NC] – Quale stupro, violenza, sconcia esibizione a scandalo di un’anima ben ordinata, quale penoso spettacolo quel cammello viola [NC] – il che se fosse, non erano da incoronarsi re degli animali le aquile e i lioni, ma gli struzzoli e i camelli, stupide e vili bestie quanto forse niun’altra [a].

[2] Sullo sfondo, a sinistra, un minuscolo canguro con occhiali. Caricatura, non v’è dubbio, e dallo stile goffo, ed estraneo all’alta ispirazione morale dell’opera [NC] – non saprei che cosa è un canguro, mi pare un animale supponente [II] – ma forse il canguro è una volpe verticale [II].

[3] Come ti menasse il dromedario di Madian, o ti trottasse sotto una delle ciraffe degli tre Magi [a]­ –  le giraffe di serie, la cui statura le costringeva ad una insensata ed intollerabile vita virtuosa. [ET 75] - Notate, il bue e l’asino. Perché non la giraffa e il canguro? [P 66]

[4] La gobba del dromedario è barocca [CD 760].

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