Le calze gialle
Mi piace quella bimba con le calze gialle. Non gli piaceva
solamente, la bimba con le calze gialle, la amava di un amore grande, molto più
grande del bimbo che lui era. Ma non lo sapeva dire. Diceva mi piace e voleva
dire che quando la vedeva arrivare con le sue calze gialle, e le scarpine color
mattone coi bottoncini (due bottoncini color mattone, uno per scarpa), allora
nel suo piccolo stomaco di piccolo bimbo si formava quella palletta piccola, ma
pesante, che era insieme come una palletta e come un buco, un piccolo foro che
dal suo piccolo stomaco dava fuori, nel groviglio degli altri visceri. Non
sapeva come spiegare la palletta che era anche un buco, non aveva il
vocabolario: intuiva che servissero parole diverse da quelle che possiedono i
bimbi, ma non sapeva a chi chiederle. Né soprattutto come chiederle.
Alle suore
no: le suore non hanno nozione mai della palletta nello stomaco, perché loro
amano solo il loro dio, che non fa sensazione della palletta nello stomaco, né
del buco. Fa la sensazione della felicità. Il loro non è un amore difficile,
come quello dei bimbi per le bimbe colle calze gialle. È una cosa facile, che
sta già dentro la programmazione delle suore, quando le progettano. Sennò non
funzionerebbero, non potrebbero prendersi cura dell'asilo, della cucina, delle
tirocinanti e dei bimbi. Suor Adriana perfino si prendeva cura dei denti:
quando il dentino lo sentivi che ballava ti mettevi in fila, nel pomeriggio nel
salone con le sedie in cerchio, e lei con una cura e insieme una cattiveria che
solo le suore, forti del loro amore sereno per il dio, che significa altro dal
bimbo, possono esercitare e, con la calma serafica delle sostanze volatili,
prendeva il dentino con le dita, ma era come dire con le pinze del dentista,
solo più rosa, e con un atto di forza sovrumana, un esercizio di potenza
istantanea, un movimento senza movimento e senza ripensamento, senza
possibilità di ripensamento, lo spiccava dalla sede sua.
Non poteva
chiedere alla suora: suora come si dice quella cosa che sembra una palletta e
insieme un buco, che viene nello stomaco quando vedo la bimba con le calze
gialle? Anche lei non possedeva la parola per dirlo. Peggio, non possedeva la
nozione che quella parola doveva dire: era un'impresa disperata e inutile.
Non poteva
chiederlo alla mamma: le mamme l'hanno dimenticata, la sensazione della
palletta e del buco dei visceri.
Poteva
chiederlo al papà, e infatti provava a chiedergli. Ma gli veniva solo di dire
papà mi piace la bimba con le calze gialle. Il papà lo guardava con amore
grandissimo e aspettava che il bimbo aggiungesse qualcosa, perché i papà sono
timidi, non sanno prendere l'iniziativa. E il bimbo però non sa procedere
oltre, e allora stallano. Si guardano come se si capissero, ma è solo perché
vorrebbero capirsi. Invece non si capiscono.
I babbi non
sanno parlare, e non sanno dire senza le parole. Il che non sarebbe grave, se
non fosse che a volte non sanno nemmeno capirle, le parole, figuriamoci le cose
dette senza le parole. O con le parole sbagliate.
Mi piace quella bimba con le calze gialle, e dovrò gestire
questa situazione scabrosa da solo. Per prima cosa descriverò dunque la bimba,
onde dotarla di una consistenza condivisa: ne farò il comune terreno di
discorso, laddove voi e io ci intenderemo.
È una bimba
lunga lunga, con le guance grandi. E gli occhioni. Il resto sono pezzi soliti:
capelli, naso, braccia, pancia, piedi. Il collo però è lungo e le gambe sono
gialle. Potremmo domandarci, in prima istanza, se siano le gambe gialle che
fanno di questa buffa creatura minima il perno di tutta la mia vicenda
infantile. In caso affermativo sarebbe da stabilire il perché.
E se fosse
invece la bimba delle calze gialle per la necessità di un indicatore univoco?
Questa cosa non l'ho mai capita, la faccenda della priorità logica, e
materiale, e causale delle calze gialle. Da dopo che è diventata la bambina con
le calze gialle i due piani si sono irrimediabilmente sovrapposti. E del prima
non ho memoria. Le calze gialle definiscono la bimba e dunque anche la causano,
formalmente, e ne fanno ciò che è, e cioè quell'essere minimo che mi scombina
il dentro. Senza garbo, senza mitidio, senza rimedio (sin pudor, sin razón).
Mi rifiuto tuttavia
di ricostruire la sequenza temporale degli eventi a ritroso: ogni analisi a
posteriori è falsa, ogni analista, sia pure tu stesso, un cialtrone, che fa
essere andate le cose come bello sarebbe fossero andate, come belleppronte
premesse verisimili di una prevista conclusione fattibile. Devo quindi tornare all'inizio,
ma non per via di recupero. Ma come allora? Per quanto mi sforzi, non arrivo a
nulla: non trovo la bambina prima delle calze gialle, o a prescindere da esse.
Ne deduco che la bambina ha le calze gialle da sempre, dove da sempre significa
da quando è entrata nel mio quotidiano universo, a mitigarne l'orrore.
Il mio quotidiano
universo, qui all'asilo, è fatto infatti di enti spaventosi, a vario grado: il
moccicone, il piscione, il morsicatore, i settenani di gesso, il riso scotto, il
riposino. In questo gabinetto delle meraviglie a contrario le calze gialle si
sono imposte, con subitaneo mozzamento di fiato e strizzamento di visceri, con
l'evidenza dell'inevitabile. La bambina sta davanti all'altalena. E da parte
della scena — altalena, papero a dondolo, nanetti di gesso, funghi a pallini,
panchine gialle, armadietti sul fondo — diventa nell’istante la scena tutta. La
scena e il retroscena, e il pubblico e il teatro tutto della memoria. Il
grembiulino rosa con il contrassegno del jolly, la creatura fantastica mista di
spaventapasseri e giullare variopinto, coi campanellini alle falde del
mantellino a spicchi, il collare duro a punte e una corona di cartone, che
nella figurina pare d'oro fino. Con pietre di diamante… — E tu che contrassegno
hai, bimbo? — Io ho il fanale da burrasca. E l’orologio a polvere. La caligine.
La disgreganza. La ghiaia. Il gridore del tuono. Le tempeste d’acciaio. — A me
sembra un coniglio — È un coniglio pieno di dolore, però.
Forse la bimba è le calze gialle. Forse la bimba è le calze
gialle? Chiedo al mio doloroso coniglio. La bimba è le calze gialle, sì, dice il
coniglio, che sa le cose, perché prima era un papero. E ora aprirò la mia anima
alla folla chiassosa, dice, perché è un male troppo grande da tenere per me
solo. O forse questa scena del coniglio l’ho solo immaginata.
Le calze gialle, germinate dal grembiulino nella scena
precedente l’intrusione del coniglio, acquistano in quella successiva
un’esistenza quasi autonoma. La bimba è le calze gialle, ha ragione il
coniglio, e io sono il loro narratore.
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