giovedì 1 ottobre 2020

All'incirca amore 2

 


Orizzontale


Trutrunc trutrunc; trutrunc trutrunc; trutrunc trutrunc; rumore di treno da dentro il treno. Clong. Brekekekeks coaks coaks; rumore di rane finte.

 

Sul treno sta seduta la Bimba. O in piedi, se salita troppo tardi. Ha occhi molto poco innocenti, molto poco innocenti abiti. Ha statura mediana, stazza mediana, di peso ben distribuito. Baricentrata giusta. Alquanto compariscente. Ancora lui non sa, ma ha attorno alla bocca vaghe pieghe catalane, marchio certo di strega. Ha anche libri, imperdonabilmente sottolineati a penna, e una borsa di stoffa a strisce, con dentro penne colorate, matite, gomme da cancellare e altre da masticare, forcine, assorbenti, braccialetti di perline e scontrini appallottolati. Poi la calcolatrice, il borsello di feltro e taluni ranocchi, anch’essi di feltro verde. Infine, e soprattutto, ha spalle larghe, quasi a dirsi nuotatrice di professione. Non brilla negli studî.

 

Triangoli trapezî forme quadre, Topazia forme quadre: dica, nuota? Dice: no; però… – Però?– Però lo chedono tutti – Chi tutti? – Tutti – Già; tutti. E tutti gradiscono lo spettacolo marziano degli stivali a coscia (coscia breve padana) – Pardòn? – Stivali marziani e pantaloni d’argento, sente? (primo tentativo di saggiare la coscia; soda; bene) D’argento e d’amianto, “filati d’amianto, pantaloni del santo”; rammenta? – Pardòn? – Troppo giovane. Già; e però non nuota – No – Nessun ausilio, dunque – Ausilio? – Aiuto, nessun aiuto, niente sostegno, manutenzione, cura. Cadeau naturale. Parbleu! – Dica? – Parbleu! Perdiana! Cospetto! Cospettone! Non capisce. Forse è solo questione di vocabolario: qual stima, signorina, esser la consistenza del suo vocabolario? Traduco. Dice: Mille – Mille cosa? Non sa – Nomi? – Nomi proprî d’uomo? M’astengo – Boh. Nomi, parole… – Anche verbi? Abbiadare, abbonacciare… Guardamento vuoto. Già. Lo scafandro astrale stivalato a coscia mi blocca, m’indispone, m’irrita. Al più mi irrita. Ma la femminea stupidità imperscrutabile mi ridesta il sensorio, e lo ottunde: i ricettori sono ottusi: farsi come il percepito, il percettore diviene ad esso identico. Perciò mi ottunde il sensorio. Strega. Manterrò tuttavia una certa dignità. Tredici secondi di dignità; guardamento vacuo; fine della dignità: mi dia il telefono. Non quello, il numero. – No. – No cosa? – No – Scuse improbabili: il fidanzato, la mamma… La mamma? Anche la sua una discreta rompicoglioni, con rispetto parlando: tutte uguali. Mah. Ma la sua mamma non m’interessa. Forse; magari; avrà la mia età: Mi dia il telefono di sua madre. – Perché? – Non capisce. Non capisce nulla. Meglio.

 

Accanto alla Bimba, dopo molto cauto avvicinarsi di mesi, sta seduto il professore a contratto. Malpagato. O anche in piedi, se la Bimba è arrivata troppo tardi. Ha occhi scuri, abiti tranquilli e sempre i medesimi. Ha statura ragguardevole, struttura ben strutturata, leve lunghe e peso modesto, per la statura. Piedi un po’ troppo piccoli. Non fragoroso nell’aspetto, ma notevole, dopo notatolo. Molto impacciato nell’approccio, si forza all’azione. È tuttavia raro che smetta la sua lorica loricata di pelle di drago, e una volta smessala trovasi vulnerabilissimo. Si rifugia nella letteratura. Cogli studenti usa d’abitudine il lei.

 

Scrivo, non scrivo: vede? Non mi concentro, non mi ci addentro, non mi capacito; m’agito; l’abito: descrivo l’abito; le scrivo, l’abito; ti scrivo, tacito, a te, di te, per te: “Per la…”. “Per la perla”. “Per la perfida perla” scrivo con questa penna e con questa matita; scrivo: “calamita”, pietra calamita, calamo e matita, carta e calamita, calamo e pepita, perfida pepita, sasso, calamitoso sasso, sconquasso, perostinato basso, calandra, calandretta e pispola (uccello in realtà assai diverso dalla calandra, per figura e per abitudini. Molto simile al prispolone.). Scrivo: vede? Scrivo “pepita”, scrivo “calamita”, scrivo “mia ferita”, scrivo scritte; scrivo triangoli, quadrangoli e pentangoli; scrivo numeri pari e numeri impari, dispari e perfetti. Scrivo: vedi? le soluzioni vere, i fatti risultati e gli esiti mancati. Scrivo le somme e i conti. E i canti. E i santi. E i pantaloni amianti, dei santi. E l’abito; scrivo l’abito e m’agito. Non mi capacito; scrivo e non scrivo; scrivo in corsivo: vede? – Certo che te sei strano – Tu, benedetta bimba, tu. – Io? – No, io! – Te?

 

Il professore a contratto, malpagato, tiene ciò nonostante il corso a contratto; lo fa per ragioni di famiglia, essendo che tiene un figlio, oltreché una moglie; una moglie carina, che però non lo considera. Non lo considera e neppure lo desidera; però non lo contesta; solo, talvolta, lo detesta. Talvolta lui spera che lei prenda infine coraggio e fugga col Zorro, quello che le scrive i messaggini. Occorrerebbe, certo, che il detto Zorro fosse un poco più abile di lui, nel delineare e porre in atto un piano d’attacco in proposito. Forse per disabitudine non è infatti egli particolarmente accorto nella scelta degli argomenti, né, va detto, nella gestione della forma espositiva dei medesimi. Perciò forse, perché non ben comprende gli scopi del suo parlare strano, Topazia non cede al fascino pur innegabile del soggetto.

 

Sarà perché è stata a scuola dalle suore. Però, vede, anche il Cartesio è stato a scuola dai Gesuiti. Ora, tralasciando le ovvie differenze tra i Gesuiti, e dico i Gesuiti del Seicento, dico gli allievi del Clavio, dico il buon Père Noël, nome infelice che gli cagionò dileggio, con tutto ch’era un grande, mi deve credere, tralasciando, dicevo, le differenze tra i Gesuiti e le suore suorine, e lo dico con tutto il rispetto per le loro testoline vuote, ripiene di divozione, la quale, tra parentesi, noi della divozione ce ne fottiamo, nevvero? per dirla col vecchio Palamede. Bel nome, Palamede, non trova? Se non fosse che poi magari mi veniva finocchio, l’avrei proprio proprio chiamato Palamede, il mio figliolo. Palamede o Renato. La Marta diceva Tlepolemo, o Antoniopizzuto, tutto attaccato. Ma dicevamo del Cartesio, e c’interessa qui di notare non la solida erudizione, e l’abitudine al ragionamento ragionante ch’egli senza dubbio veruno mediò dai suoi maestri, per quanto non gli piacesse d’ammetterlo, non questo, ma la rivolta che sempre, e direi proprio in virtù del suo esser stato alla loro scuola, egli maturò didentro, e di fuori, contro quei buoni padri, fino a rinnegarne i principi, fino a stravolgerne i costrutti, financo, pensi, financo a barattare il loro Iddio col suo spazio. Lo spazio, ha capito bene, lo spazio cosmico e siderale, infinito e inspiegabile, e perciò impasseggiabile, se non con gli opportuni e a lei ben noti stivali astronauti, e pantaloni d’amianto, pantaloni del santo, curiali e mercuriali. Lo spazio siderale, Topazia, che s’incarna in quello geometrico: grandioso! Gli assi cartesiani come orizzonte di senso, un’escatologia iperbolica, un catechismo agapico-asintotico, ascisso e ordinato; un genio! Ora, io non mi permetterei mai di esiger da lei questo, la inviterei però ugualmente alla rivolta, una sua rivolta minima contro le suorine, una presa di coscienza: si orizzontalizzi, Topazia, orizzontalizziamoci… No cosa? Che c’entra ora l’orologiaio? Dice era quello il dio del Cartesio? Forse ha ragione, forse mi confondo col Newton, certo, non fa ad ogni buon conto nessuna differenza. E poi da quando mi s’è fatta dotta? Piuttosto che orizzontalizzarsi, vero? Qualunque cosa purché non s’addivenga all’atto, vero? Inazione, Topazia, stallo totale e cosmico; il freddo siderale. E non mi tiri fuori, la prego, la storia del sottoscala. La reco altrove? Dove?

 

Il professore a contratto si trova sprovvisto di luogo acconcio ove recare la Bimba, nell’eventualità di un suo ormai quasi insperato cedimento. La conduce talvolta, per i suoi disperati esercizî dialettici, nel sottoscala del dipartimento, luogo scarsamente frequentato, non squallido ma non aprico. Ivi apprende egli, in una luminosa mattina di maggio, l’inutilità dei suoi seppur minimi tentativi di procurarsi l’accesso ad un più ameno locale. Come paventato, non ha infatti Topazia in particolare abbominio la penombra incerta dello stambugio ipogeo; piuttosto, afferma, sèntesi ella impedita all’atto da rigido ammonimento interno. Forse per via di certa sua infanzia un poco conventuale, per via di certe modeste suorine, monacali d’abito e di modi, sorde d’utero e d’intelletto sconfitte, e però gioiose sempre: del poco pensare, del poco mangiare, del mesto vagare pei corridoi del collegio, giunte le mani, i pensieri al cielo. Non certo invincibile la loro logica: s’ella davvero ha lì appreso l’arte della disputa, allora la confutazione si spera immediata, e presta la vittoria, con tutto il buono ch’essa implica e delinea, e che qui ancora non si dice. Si dice invece della Marta, collega a contratto malpagata, amica da lungo e sodale, donna di durissima cervice e di pedante protervia, sommamente presuntuosa e prodigiosamente fastidiosa, epperò saggia, molto saggia al consiglio, forse per via di certa sua infanzia un poco conflittuale. A lei il professore gradirebbe chieder consiglio, non fosse che già sa ch’ella non comprenderà nulla, ma proprio nulla di ciò ch’egli andrà a dirle. Forse per via di certa sua sustanzia un po’ troppo intellettuale… 

 

Dice non è il sottoscala. – No. – Cos’è, allora? – Il senso di colpa. – Il senso di colpa? Per chi, benedetta fanciulla? Per cosa?  Non sa. Il senso di colpa in generale, come nozione astratta. Come stato dell’anima… Niente di solido, dunque, azzardo: una banale ostruzione metafisica? Ma l’ostruzione metafisica (ora non badi ai termini, Topazia, si fidi di me, segua il ragionamento) l’ostruzione metafisica, in quanto costrutto astratto, non è difficile da divellere, se solo l’analizziamo per benino. Lo decostruiamo, Topazia: venga con me nel mio ufficio che decostruiamo insieme questo costrutto teorico ostruttivo. “Venga con me nel mio ufficio che decostruiamo insieme questo par di coglioni”, ha detto Marta. O forse me l’ha scritto, sì di certo l’ha scritto, non dice mai troppo crasso, scrivere invece lo scrive. Quando era piccola non diceva nemmeno “cesso”. Era una bimba noiosa, noiosa e giudiziosa. E brava, tanto brava: “Hai qualcosa di cui chieder perdono al Signore Iddio, Marta?” – “Sì, ho disobbedito alla mamma, non tengo in ordine la cameretta, angario e vesso Iago…” Che palle! “Topazia, tu invece, cos’hai fatto stavolta? Dillo al signore, che è buono e perdona” – “Mi son fatta metter le mani di tra le puppe.” – “Oh! E da chi, Buon Dio?” – “Dal Mario, dal Mario e dal Gino. E da suo fratello, del Gino. E da Rino. No, forse no, da Rino no, non ricordo, è importante, don?” – “No, non fa nulla. Ma dì, piuttosto, e il corso di nuoto?” – “Io non faccio il corso di nuoto!” – “Ah, non fa nulla”. Però Marta alle medie aveva per compagna di banco Loscomaria. “Questo è lo spermatozoo di Salvo. Così grosso?” – “No” le spiega la Marta, per sentito dire dal libro di scienze: “Il disegno del libro è ingrandito. Così grandi sono i girini” – “Ah, ecco perché non ce n’erano sul giubotto di jeans” Loscomaria diceva “giubotto”, con una b sola e mostravalo con chiazze chiare, come di bianco d’uovo rappreso. Salvo è il fratello di Santo, che fa il cameriere da Don Francesco. Con Loscomaria praticava l’arte della fuga profilattica. La sua amica Salvina, che gradiva giungere illibata al matrimonio, adottava altre pratiche, di tipo posteriore. Lo raccontava Loscomaria alla Marta. Alla Marta che non diceva nemmeno “cesso”.

 

Intanto Topazia non è più ferma. Si smuove, si muove: alterna agli scarti di lato anche dei passi avanti; piccoli passi avanti, estorti, sofferti, poco consensuali, molto minimali, passi contati ma continui. Forse anzi lo segue, forse lo sta seguendo… S’arresta:

 

No, Topazia, cos’hai capito, non ti reco nel cesso. Mai mi permetterei. Ti reco nell’ufficio, ch’è luogo dignitoso: Vieni meco, Topazia! – (silenzio perplesso) – Sì, insomma, sèguimi! Mi segue, ma a passi lentissimi, e più ci si avvicina al dunque, più i passi sono lenti, e più son brevi. Le dico: Vieni, bimba zenoniana! le dico: Àmbula, mio asintoto. Non gradisce, non gradendo del resto alcunché che abbia a che fare con la geometria. – Non è la geometria in sé, è l’esame. – Già. A quell’età misurano tutto in esami…: Esaminiamo allora da vicino questo costrutto astratto, le dico – Quale? – Il senso di colpa, Topazia, il tuo senso di colpa, che t’impedisce di orizzontalizzarti, come sarebbe anche il caso, ora che son passati vari mesi di inazione… Perché vedi, il tuo, Topazia, è un gran bel senso di colpa: corale, lirico, quasi cosmico. Se non fosse ch’è comico. Ridicolo. Nella tua forma d’ossa e di polpe che la madre ti diè, mia poco loica donna, tu non nutri un senso, ma un controsenso: né pentere e volere puossi insieme, per la contradizion che nol consente. Il Cartesio lo sapeva bene. Se anziché dalle suorine fossi andata a scuola dai Gesuiti, lo sapresti anche tu, che il senso di colpa abbisogna della colpa commessa: non assolvimento prima del pentimento, no rimorso prima della colpa. Vuoi il senso di colpa? Commettila, son qui per questo, per trarti dalla lacerante contraddizione in cui ti sei cacciata, ch’è uno stato insostenibile dell’anima. Tra l’altro, stanotte ho sognato Igor, che mi dimostrava per assurdo la non congruenza di due certi triangoli. Lì per lì mi convinceva, poi notavo che assumeva l’esistenza di Dio. Gli ritelefonavo… – (silenzio) – Già, che lei non gradisce alcunché che abbia a che fare con la geometria: Iddio ancora ancora, la prova ontologica, forse che mai…, ma i triangoli no. – Non è la geometria in sé, è l’esame. – Già. A quell’età misurano tutto in esami…: Esaminiamo allora da vicino questo costrutto astratto. “Esaminiamo allora da vicino questo par di coglioni”, ha detto Marta. O forse me l’ha scritto. È che la Marta non capisce. Si vede non ha mai avuto a che fare con un bimbo. E che le farebbe bene, dico. Le dico: mi basta di sentir nominare la Topazia, ma non lei, anche la mamma, la sorella, la strada dove sta, il tram che prende… Mi dice, la Marta: “anche Proust”. Dice: “ascolta, Iago, c’è Bernhard alla radio stasera”. Bernhard mi piace tanto, ascoltarlo alla radio, come anche alla Marta, ma ora mi piace più accudire il pensiero di Topazia. Anche pezzi, pezzi di pensiero e pezzi di Topazia: le ascelle, gli alluci, le mani di Topazia sui fianchi di Topazia, le mani di Topazia sulle spalle di Iago, le mani di Iago sulle spalle di Topazia, le spalle di Topazia sui fianchi di Iago, le natiche di Topazia… no, così non va bene, è un esercizio di esasperazione eccessiva. La Marta non capisce. E che le farebbe bene, dico. Sarebbe un colpaccio: alla Marta – Marta Robinson, la signora Marta Robinson, collega a contratto del Conte Mascetti – alla pedantissima Marta, che le capita lo studente: il pericolosissimo studente. Così, tra capo e collo, diciamo Federico, per gli amici Fede.

Prima cosa, la Marta impara a scrivere i messaggini: messaggini pedanti ed oltremodo eruditi: dapprincipio è terribile: entimema, anatocismo, banaùsico… non ci sono, nel telefonino, siffatti termini essenziali del linguaggio erotico della Marta. Li deve compitare ogni volta, lettera per lettera: le ci vogliono dai tre quarti d’ora all’ora e tre quarti: “Quel nostro caustico ampletterci, e banaùsico… breve stilla d’infiniti abissi… in dismisura, Fede, l’assenza tua mi china a tristizia… la persona mia che tutta si disquassa, la persona mia che tutta s’inabissa…” Ah! grandiloquente, geroglifica, epimonica Marta! Stona solo, forse un poco, quell’apocope…: Non hai un amico, Topazia? (con lei non posso, ahimè, azzardar l’apocope) Il biondino: non vuoi che lo presentiamo alla Marta, il tuo fidanzatino? così insieme ce ne liberiamo, e diamo un senso infine a questa nostra storia? Anche se storia è un termine grosso, ché storia non ci può essere, Topazia. Trattasi piuttosto di stato, di situazione, di postura dell’animo: una postura però innaturale: manifestamente, chiaramente e inequivocabilmente ingestibile, per quanto meravigliosa; un qualcosa di destinato a collassare, che è anzi necessario che prima o poi collassi, e ciò nonostante mi è fastidiosissimo pensare a quando ciò accadrà: A te non reca fastidio, il pensiero della fine? Dimmi qualcosa, stupida bimba, ogni tanto dimmi qualcosa… È straziante, frustrante e deleterio. È irresponsabile, anche, ma non temere, che ne sono perfettamente consapevole. È solo che ho deciso di concedermi un lusso: il lusso di questo mondo parallelo, assurdo e bellissimo, Topazia, dove tu per natura passeggi coi tuoi stivali marziani, e dove io contro natura m’addentro, controverso, in contro senso, in contro tempo… Ma debbo farlo, Topazia, che questo solo è il posto dove voglio andare: questo posto assurdo, fantasma, fasullo; questo spazio di parole vuote e segni disperati, di grida a distanza, di costanza, di rara pazienza, e però di tangenza. Anche. Di asintotica tangenza, Topazia, di tangibile tangenza. E di pazienza. Di potente pazienza, di paziente potenza, di potente potenza… 

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